Nel mondo esistono in questo momento nove vaccini in fase di avanzata sperimentazione. La terza, l’ultima, quella che verifica l’efficacia e la sicurezza del prodotto. Quattro tra questi sono cinesi. «Il nostro vaccino contro il Coronavirus dovrebbe essere pronto per essere distribuito su scala globale entro l’inizio del 2021», sono le parole pronunciate da Yin Weidong, l’amministratore delegato di SinoVac, una delle aziende farmaceutiche della Repubblica popolare cinese che hanno avviato quest’ultima cruciale fase di verifica sperimentale. «All’inizio, la nostra strategia era progettata per Wuhan e la Cina, ma a luglio l’abbiamo modificata affinché possa diventare una risorsa per tutti: il nostro obiettivo è fornire un vaccino a livello globale, inclusi gli Stati Uniti e la Ue».

Mentre l’Europa è alle prese con l’inizio della seconda ondata della pandemia, con numeri che di giorno in giorno suonano sempre più allarmanti, e gli Stati Uniti affrontano l’ultimo mese di campagna elettorale con il presidente uscente positivo al Covid, produrre centinaia di milioni di dosi vaccinali entro la primavera del prossimo anno non è solo l’obiettivo della SinoVac: è l’aspirazione massima di Pechino.

Ritorno alla normalità

In Cina, la vita sembra tornata alla normalità. L’allerta per la nascita di nuovi focolai rimane alta, il controllo tramite app che tracciano e segnalano i nuovi positivi è severo, ma ormai da mesi il numero dei contagi, secondo i numeri ufficiali, è fermo a poche centinaia. Nei giorni scorsi si è festeggiata la golden week del 1° ottobre, l’anniversario della nascita della Repubblica popolare: 600 milioni di cinesi si sono spostati per turismo all’interno dei confini del paese. Un mese fa, nella Grande sala del popolo a Pechino si è addirittura tenuta una sontuosa cerimonia per celebrare la vittoria della “guerra di popolo” contro il virus. Sul palco, uno alla volta, hanno sfilato Zhong Nanshan, Zhang Boli, Zhang Dingyu e Chen Wei.

Si tratta di personaggi che a noi non dicono nulla, ma che il Presidente Xi Jinping ha insignito con la medaglia di “eroi del popolo”. Zhong Nanshan è l’epidemiologo più famoso della Repubblica Popolare, a lui si devono la scoperta della Sars nel 2003 e l’ufficializzazione, il 20 gennaio, della trasmissibilità da uomo a uomo del Covid-19. Zhang Boli è il presidente dell’Università di medicina tradizionale cinese di Tianjin e ha trascorso i primi mesi della pandemia negli ospedali per organizzare ricerche scientifiche e curare i pazienti proprio tramite gli strumenti dell’antica arte della cura orientale.

Zhang Dingyu è il primario dell’ospedale Jinyintan di Wuhan e nonostante soffra di Sla – ha raggiunto Xi Jinping sul palco zoppicando visibilmente – nei primi mesi dell’emergenza è rimasto in corsia e assieme ai suoi colleghi ha curato più di 2.800 malati.

L’unica donna tra i premiati, Chen Wei, è un bioingegnere e un generale dell’Esercito popolare di liberazione, famosa in Cina per aver combattuto la Sars e aver contribuito alla sconfitta di Ebola in Africa. A metà gennaio è arrivata a Wuhan con il compito di mettere in piedi una squadra di eccellenza per trovare un vaccino efficace.

Vaccino e propaganda

Le immagini di quando già a marzo si è fatta inoculare la prima dose di vaccino hanno invaso i media cinesi e fatto il giro del mondo.

Eventi di questo genere sono facilmente classificabili come mera propaganda, eppure in Cina, lasciando da parte gli evidenti vantaggi e interessi economici dell’operazione, la scoperta di un vaccino efficace in tempi brevi sarebbe un tassello importante nella realizzazione del “Sogno cinese”, l’orizzonte politico del presidente Xi Jinping che prevede, come obiettivo interno, il «raggiungimento di una società moderatamente prospera» entro il 2021, e l’obiettivo internazionale di trasformare il Dragone in una nazione «pienamente sviluppata» entro il 2049.

Un traguardo di ampissimo respiro, quello di Xi Jinping, un processo di “rinascita” per tornare a rivestire una posizione di primato nel mondo, superando il cosiddetto “secolo delle umiliazioni”, il periodo che parte dalla metà dell’Ottocento e arriva alla metà del Novecento in cui Pechino ha subito il colonialismo europeo e l’invasione giapponese. La formula “sogno cinese” non può non indurre in un occidentale l’accostamento con l’American Dream. Sicuramente le due ambizioni presentano delle somiglianze, ma partono da presupposti decisamente diversi. Quello a stelle e strisce è un sogno individuale dove il singolo, lavorando sodo, può raggiungere la propria realizzazione, il proprio successo.

Il “sogno cinese” è un’aspirazione collettiva, in cui il cittadino si impegna per raggiungere anche il successo di tutti gli altri, ovvero del suo paese. La nazione in cui ha avuto origine la pandemia è anche quella che agli occhi dei suoi cittadini è riuscita per il momento a governare meglio il contagio. I cinesi sono oggettivamente orgogliosi di questi risultati e hanno avuto la conferma che il loro modello di governance è più efficace di quello occidentale. Le stesse constatazioni non valgono tuttavia agli occhi dell’opinione pubblica mondiale. L’idea che il governo cinese abbia insabbiato gli accadimenti all’inizio della pandemia in occidente fa ormai parte dell’immaginario comune.

Via della seta sanitaria

Nonostante tutti i paesi del mondo abbiano accumulato gravi ritardi pur potendo confrontarsi con il precedente di Wuhan, alla Cina non si applica l’attenuante di essere stata la prima a dover affrontare un virus di cui ancora oggi si sa poco. Pechino ha cercato a più riprese di togliersi di dosso l’etichetta di “untore del mondo”, ma fino ad ora i tentativi sono stati controproducenti e hanno quasi sempre avuto l’effetto contrario.

Il lancio della “Via della seta sanitaria” a marzo, l’iniziativa che prevedeva la vendita all’estero degli strumenti difficilmente reperibili nella fase emergenziale dell’epidemia (mascherine, ventilatori, camici, etc.) è stato letto come un tentativo esclusivamente speculativo ed egemonico; le reazioni molto aggressive sui media e i social dei diplomatici cinesi di stanza in varie nazioni – i cosiddetti “Wolf Warrios” – alle richieste di risarcimento danni per il covid da parte di alcuni governi e alla definizione trumpiana di “China virus”, sono state interpretate alla stregua di gravi minacce.

Non è l’American Dream

Il sinologo Kerry Brown, direttore del Lau China Institute al King's College di Londra e autore del saggio L’amministratore del popolo.Xi Jinping e la Nuova Cina (Luiss University Press), dice che se la Cina dovesse scoprire per prima il vaccino proverà alla sua opinione pubblica di aver gestito la pandemia meglio della Ue e degli Stati Uniti e dimostrerà definitivamente al mondo intero di essere una potenza non solo economica ma anche scientifica. Trovare il rimedio decisivo, passare dall’essere il centro del problema ad essere la chiave della sua soluzione, potrebbe essere per Pechino una “seconda possibilità”, un modo per neutralizzare le accuse di cattiva gestione iniziale dell’emergenza. Si tratta di uno scenario tutt’altro che scontato.

Gli Usa e la Gran Bretagna hanno accusato gli hacker cinesi di cyber-attacchi contro le università e i centri di ricerca per rubare informazioni sul vaccino anti-Covid-19, il New York Times ha denunciato che, nonostante i rischi sanitari, la Cina è l’unico paese al mondo ad aver già somministrato tre vaccini ancora in fase di sperimentazione a centinaia di migliaia di persone tra dipendenti delle aziende statali, membri del governo e maestranze delle aziende farmaceutiche produttrici (la SinoVac, ad esempio, avrebbe già inoculato il suo prodotto a 10.000 persone, oltre che a 3000 suoi dipendenti e nelle loro famiglie).

C’è unanimità nel mettere in guardia dalla potenziale diplomazia del vaccino cinese, dando per scontato che il Dragone utilizzerà il ritrovato scientifico solo per rafforzare la sua influenza geopolitica su determinate aree del mondo, come l’Africa, i paesi arabi, il Sud Est Asiatico e il Sud America.

«Credo che il mondo non cambierà la sua visione della Cina, anche se la capacità di creare un vaccino utile per tutti potrà funzionare a livello di softpower», dice ancora il professor Brown. Nella sempre più feroce guerra di propaganda a trecentosessanta gradi tra Repubblica Popolare e Stati Uniti – riguardo ai vaccini Trump ha annunciato che ci saranno 100 milioni di dosi per i soggetti fragili entro la fine dell’anno e che entro aprile ne verranno prodotte a sufficienza per tutti gli americani – il tentativo cinese è quello di emergere come superpotenza responsabile.

Presentare il successo

«Sarà fondamentale il modo in cui presenterà l’eventuale successo», prosegue Brown. «Se si dimostrerà arrogante, potrà essere un ulteriore problema». La Cina è la seconda potenza mondiale e sente di dover agire come tale. Soprattutto, vuole essere ritenuta un interlocutore alla pari.

Non accetta più di essere trattata come un paese “politicamente immaturo” perché ha un sistema di governo considerato inadeguato dalla comunità internazionale, guidata, dalla Seconda guerra mondiale in poi, dai paesi democratici occidentali. Vige nelle leadership cinesi un’idea di multilateralismo diversa dalla nostra, riassunta nel concetto di “armonia”, che comprende la coesistenza di sistemi irriducibilmente diversi tra loro, senza che sia previsto alcun allineamento in nome di principi comuni.

Per dirla ancora con Brown, un miliardo e mezzo di persone non può sparire dall’oggi al domani. Sarà inevitabile continuare ad avere a che fare con la Cina nei prossimi decenni. Possiamo continuare ad ignorare il suo punto di vista e andare allo scontro, oppure cominciare a prenderlo in considerazione per trovare canali di dialogo efficaci.


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