La tregua a Gaza è ormai un lontano ricordo. L’esercito israeliano prosegue ormai da giorni le operazioni nel sud della Striscia e l'aviazione, come riferito da un portavoce del governo, «continua a colpire decine di obiettivi di Hamas».

Sempre secondo la stessa fonte, poi, solo nella giornata di mercoledì sarebbero stati lanciati da Hamas 12 razzi contro la città di Beer Sheva, nel sud di Israele, partiti «da una zona umanitaria». Per l'Unicef gli ultimi bombardamenti su Gaza sono i «peggiori» dallo scoppio del conflitto. Non si fermano neanche gli sgomberi di massa e le evacuazioni forzate.

Nel frattempo ha fatto molto scalpore la notizia diffusa dal New York Times il 30 novembre scorso secondo cui funzionari israeliani avevano ricevuto il piano di battaglia di Hamas per l'attacco terroristico del 7 ottobre, con dettagli dall’impressionante coincidenza, più di un anno prima.

Un colonnello della divisione di Gaza, come spiega il Nyt, avrebbe ignorato quell’informativa e la notizia di una esercitazione di Hamas del luglio scorso con caratteristiche rispondenti alla stessa informativa, sebbene l’analista avesse scritto: «Smentisco categoricamente che lo scenario sia immaginario».

In una fase quindi nuovamente preoccupante per le sorti del conflitto, dopo una tregua settimanale che aveva riacceso flebili speranze, per provare a capire meglio quale sia la situazione e che sviluppi ci si possa attendere, Domani si è rivolto a Meron Rapoport, giornalista e intellettuale israeliano tra i più noti al mondo, ex caporedattore di Haretz; attivista politico e fondatore del movimento A Land for All, che chiede la creazione di due stati indipendenti ma confederati con frontiere aperte.

Ad osservare la situazione al momento, sembra che un prolungamento della tregua sia impensabile, o ci sono margini di speranza?

È difficile esprimersi a riguardo. La tregua è ufficialmente finita venerdì 1° dicembre e sono stati già uccisi centinaia di palestinesi. I bombardamenti continuano, Israele ufficialmente dice che andrà avanti fino a che il lavoro che ha cominciato non sia ultimato e fino a che Hamas non sarà annientata sia politicamente che militarmente.

L’operazione punta a mettere fine al governo su Gaza di Hamas. Sabato 2 dicembre Israele ha fatto tornare il suo rappresentante per il dialogo che è in corso a Doha per la continuazione della tregua e per lo scambio di ostaggi, quindi tutto farebbe pensare al peggio. Ma non è detto che si voglia veramente andare fino in fondo come annunciato.

Prima di tutto ci sono i familiari degli ostaggi che hanno paura giustamente che la continuazione della guerra aumenti il rischio di non rivedere i propri cari - quasi 140 ostaggi sono ancora nelle mani di Hamas, alcuni soldati, ma la maggior parte civili, ci sono una decina di donne, anziani – e che proseguiranno la pressione sul governo per trattare una nuova tregua.

Anche gli americani sembrano premere per una ripresa del cessate il fuoco al fine di far rilasciare il numero più alto possibile di ostaggi. Un altro elemento, forse più profondo a favore di un’altra tregua è che Israele - e questo è risultato chiaro nella visita di Blinken di fine novembre – non ha un piano del “giorno dopo”.

Blinken ha chiesto chiaramente cosa avessero in mento senza ricevere nessuna vera risposta. Se dovesse cominciare la battaglia nel sud della Striscia, allora gli americani potrebbero chiedere ulteriori chiarimenti sulla strategia del dopo.

Un ultimo elemento sono i civili uccisi. Fino ad ora più di 14mila i palestinesi sono stati uccisi 6000 bambini, 4000 donne. Se continuano a uccidere tanti palestinesi civili è immaginabile che gli Stati Uniti intensificheranno la pressione su Israele per ottenere almeno una tregua».

Dall’inizio della crisi a oggi è cambiato qualcosa nell’opinione pubblica israeliana riguardo alla guerra e alle scelte del governo?

Credo che non sia cambiato molto. Forse c’è maggiore determinazione da parte del pubblico ad andare fino in fondo, corroborata dalle testimonianze degli ostaggi alcuni dei quali, non tutti, hanno riportato di essere stati abusati. Le parole di alcuni ostaggi tornati in qualche modo hanno aumentato il sentimento di odio e di vendetta, o, comunque, la convinzione che non si possa permettere cha Hamas resti al potere.

L’unico cambiamento che possiamo registrare è sugli ostaggi. All’inizio la questione non era molto presente nel dibattito, anzi direi che il loro destino fosse quasi ignorato: Ora, almeno su questo, c’è un cambiamento netto grazie ai familiari degli ostaggi ma anche all’opinione pubblica: prima di tutto si deve far tornare tutti gli ostaggi, del destino di Hamas e della Striscia si parlerà dopo. Questo non è accettato dalla parte più a destra del governo che dice di essere ovviamente d’accordo sul ritorno dei prigionieri ma che ciò non deve avvenire a scapito degli obiettivi dell’operazione bellica.

La posizione dominante qui, sostenuta da governo, politica ma anche dai media, in un dibattito non propriamente aperto, è che si stanno ottenendo i rilasci per merito dell’operazione militare. Io non credo molto a questa teoria: ci sono molti indizi che evidenziano quanto Hamas parlasse di scambio fin dalla seconda settimana di guerra, ma è una posizione, la mia, decisamente minoritaria. In ogni caso, è questo il tema vero nel dibattito ora, non cosa avverrà il “giorno dopo”, di cui non si parla quasi.

Come stanno documentando il conflitto i media israeliani? Le tv, i giornali, i siti, ad esempio, mostrano immagini da Gaza?

Sostanzialmente no. Direi che qui da noi arriva pochissimo, quasi nulla, i civili uccisi nella Striscia si vedono pochissimo. E le aggiungo che purtroppo, se arrivassero immagini, produrrebbero l’effetto opposto: «Se stiamo riuscendo a radere al suolo Gaza forse dobbiamo continuare così» oppure «se lo sono meritato».

La parte più progressista del paese è quasi inesistente sono sicuro che ci sono israeliani che non pensano così ma le loro voci non si sentono, qualcosa su Haretz, sul mio sito c’è molto, ma non è certo mainstream.

È uscito un articolo del Nyt che rivela che già da un anno circolavano dettagli molto precisi dell’attacco di Hamas. Cosa è successo secondo lei? Perché è stato sottovalutato?

È chiaro che Israele sapesse qualcosa, in modo identico a quello che è accaduto nel 1973, quando fu poi rivelato che era in possesso della maggior parte delle informazioni.

Il problema, allora come oggi, non è se c’erano informazioni, ma la capacità di interpretarle. La convinzione generale era che Hamas avesse paura di attaccare e che se lo avesse fatto, Israele sarebbe stato sufficientemente forte per respingere ogni tentativo.

All’epoca Golda Meir disse che un eventuale attacco egiziano sarebbe stato una follia perché li avrebbero annientati in breve. E qualcosa di simile è successo ora per la confidenza verso l’esercito e l’idea che Hamas non avesse interesse ad attaccare. Sono sicuro che non c’è mai stata una notizia che diceva: il 7 ottobre alle 6.30 Hamas attaccherà.

D’altra parte, con tutto l’apparato di intelligence che ha Israele sarebbe stato stranissimo se non si fosse saputo assolutamente nulla di questo attacco.

Il problema è la capacità di interpretare. Il fallimento odierno è molto più grave del ‘73 non solo perché la tecnologia è molto avanzata, ma perché in questo caso contro Israele non muoveva uno stato con un suo esercito, ma una organizzazione con mezzi molto molto modesti.

È il risultato della convinzione politica degli ultimi 30 anni che è Israele a condurre il conflitto, i palestinesi possiamo aggirarli facendo accordi con Arabia Saudita o Emirati e al massimo ci lanceranno missili di tanto in tanto.

È chiaro, però, che tutto ciò è molto, molto imbarazzante per un servizio di intelligence con decine di migliaia di soldati e la tecnologia più avanzata al mondo.

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