Per affrontare un’ipotesi seria per il futuro di Gaza occorre affidarsi a un progetto fondato su tre strumenti essenziali: il diritto internazionale, incentrato sulla Carta delle Nazioni unite, il diritto internazionale umanitario, ovvero le Convenzioni dell’Aja e di Ginevra che tutelano la popolazione civile e disciplinano i regimi di occupazione, e il diritto internazionale penale, oggi delineato dal più avanzato sistema di codificazione dei crimini di guerra e contro l’umanità che si rinviene nello Statuto della Corte penale internazionale.

Su queste basi si può tentare innanzitutto di ricostruire i profili giuridici principali della situazione in atto. Per linee generali, il diritto di difesa sancito dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni unite consente una reazione armata (di Israele) all’interno di un territorio (Gaza) da cui ha avuto origine l’atto di aggressione compiuto da Hamas il 7 ottobre, ingiustificato e configurante “atrocità di massa” a fini di “terrorismo”, in particolare con la “presa di ostaggi”, e secondo diversi interpreti integrante anche gli elementi costitutivi del “genocidio” ai sensi dell’articolo 6 dello Statuto della Corte penale internazionale.

I vincoli

In base alla Carta delle Nazioni unite il Consiglio di sicurezza dovrebbe intervenire per creare i presupposti per la cessazione del conflitto e per un piano di stabilizzazione per Gaza, ma il Consiglio è paralizzato dai veti dei membri permanenti che non hanno trovato convergenze su una formula che comprendesse la condanna di Hamas, il diritto di difesa di Israele e la tutela della popolazione palestinese. Per questa ragione rimane in capo a Israele valutare i suoi margini di intervento nella Striscia per colpire i terroristi e liberare gli ostaggi, sempre però nell’osservanza dei canoni dell’International Law.

In particolare, il diritto internazionale bellico moderno non consente una occupatio di un territorio illimitato quanto al tempus e al modus. Per il dato temporale, a oggi Israele non ha fissato un termine per quando potrà considerare soddisfatte le sue condizioni di sicurezza, per cui la comunità internazionale è chiamata a promuovere una valida alternativa all’attuale fase di occupazione, ad esempio con un contingente internazionale di forze di sicurezza.

In sostanza, un regime di occupazione per il diritto internazionale non può che essere temporaneo e non può preludere a qualsiasi forma di “annessione” del territorio palestinese, né tanto meno a una deportazione di massa: Israele dovrà dunque impegnarsi a restituire la Striscia alla sua popolazione.

Sul punto occorre anche non trascurare la narrazione collettiva della identità palestinese: si è evocato il rischio di una nuova Nakba, la “catastrofe” che vide l’esodo di 700mila palestinesi costretti a fuggire appena sorto Israele quando reagì all’aggressione araba del 1948.

Per il modus va ricordato che il diritto internazionale umanitario pone precisi obblighi di tutela della popolazione civile, per entrambe le parti: Hamas, che è l’aggressore e quindi ha agito in violazione del diritto internazionale, deve liberare gli ostaggi catturati, non deve utilizzare ospedali, ambulanze, edifici civili per nascondere componenti militari, deve altresì assicurare l’evacuazione dei civili dalle zone di combattimento, e non coinvolgere civili quando lancia missili su Israele, e così via.

Israele deve reagire secondo i principi di precauzione, proporzionalità e distinzione (deve mirare a obiettivi militari) perché sia tutelata la popolazione civile: se colpisce un obiettivo civile è suo onere dimostrare che vi ha individuato un obiettivo militare, e nel caso fosse stato consapevole di poter coinvolgere civili dovrà dimostrare di avere proceduto ai necessari avvertimenti e secondo i principi di necessità e proporzionalità.

Sono queste le regole basilari delle Convenzioni dell’Aja e di Ginevra, le cui violazioni oggi integrano i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra perseguiti agli articoli 7 e 8 dello Statuto della Corte penale internazionale, che ha piena giurisdizione sulle responsabilità di parte sia palestinese che israeliana.

In tale prospettiva, nella condotta delle operazioni lo stato ebraico dovrà tenere conto comunque dell’indirizzo della rete delle alleanze su cui storicamente ha consolidato il suo riconoscimento di stato di recente costituzione e su cui intende poggiare la sua credibilità internazionale in particolare come nazione democratica. Ha dunque un senso la posizione che in maniera responsabile hanno assunto gli Stati Uniti e l’Unione europea nel sollecitare una “moderazione” nella reazione di Israele. In via preliminare, si è voluto riconoscere realisticamente che sostenere un cessate il fuoco ostacolerebbe un’azione di Israele mirata a debellare il terrorismo di Hamas e a ricostruire la sicurezza dei confini.

Ragionevolmente però sono state sollecitate le pause umanitarie a favore della martoriata popolazione palestinese.

Le proposte

Sulla base di questi principi, se si vuole evitare l’aggravarsi della catastrofe umanitaria e l’escalation del conflitto occorre che la comunità internazionale elabori al più presto un progetto per la stabilizzazione di Gaza che convinca Israele e il mondo arabo. Sulla questione si sono aperte alcune prospettive che potrebbero avere una concreta evoluzione a breve. Dagli Stati Uniti il presidente Biden è intervenuto a chiarire la linea della Casa Bianca in un editoriale per il Washington Post: Gaza non potrà essere più una «piattaforma per il terrorismo», ma al tempo stesso «non ci deve essere alcuno spostamento forzato dei palestinesi da Gaza», così come non si potrà realizzare «nessuna rioccupazione, nessun assedio o blocco e nessuna riduzione del territorio». Sul futuro assetto dell’area Biden ha precisato che Gaza e Cisgiordania dovranno essere riunite «sotto un’Autorità palestinese rinnovata», mentre occorrerà lavorare per una «soluzione a due stati». È la stessa linea che, nella sostanza, è stata tracciata da una riedita intesa Italia-Francia-Germania in un documento presentato al capo della diplomazia europea Josep Borrell e al Consiglio affari esteri.

Si tratta di un piano su sei punti, articolato su «tre no e tre sì». I «no» riguardano: 1) non potrà essere imposto lo spostamento definitivo in altri paesi della popolazione palestinese da Gaza; 2) non vi può essere una riduzione del territorio di Gaza, per cui Israele non potrà rioccuparla in forma stabile, né si potrà accettare un ritorno di Hamas; 3) Gaza non va slegata dal resto del territorio palestinese: la soluzione per Gaza va vista nel quadro di una ”soluzione globale”. I tre «sì» concernono questi punti: 1) la ricostituzione a Gaza di «una autorità palestinese», e Borrell ha precisato che se c’è già un’Autorità palestinese (in Cisgiordania) «non occorre inventarne una nuova», ma va rafforzata con appropriate decisioni del Consiglio di Sicurezza; 2) il «forte appoggio» politico e finanziario che questa autorità dovrà avere con il coinvolgimento degli stati arabi; 3) un maggiore impegno dell’Ue nella regione per la costruzione dello «stato palestinese».

Un modello

Le linee-guida formulate dal presidente Biden e nel documento predisposto in ambito Ue rappresentano una base di partenza su cui sarà necessario raggiungere le condivisioni per tradursi in un piano delle Nazioni unite. Il percorso potrebbe essere implementato con uno dei modelli di autorità transitorie adottati in altre aree di crisi.

Il progetto potrebbe prevedere un provvedimento di primo tempo in cui stabilire un’autorità provvisoria per Gaza da cui sia allontanata l’attuale dirigenza di Hamas. Si tratterebbe di un’amministrazione civile simile al governo provvisorio istituito in Iraq, composto da rappresentanti delle forze locali, su cui sarà necessario un vaglio di affidabilità e imparzialità. A esse potranno unirsi figure autorevoli di Fatah e delle altre componenti moderate su cui si regge l’Autorità nazionale palestinese (Anp) in Cisgiordania.

La soluzione dovrebbe prevedere anche un ruolo di “garanti” – con presenze diplomatiche, amministrative e forze multinazionali di sicurezza – svolto dalla Lega araba, dai principali stati arabi come Egitto, Giordania, e anche da stati del Golfo come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, oltre che da Usa e Ue, il tutto sotto l’egida dell’Onu che dovrà approvare una risoluzione in tal senso.

Due popoli, due stati

Nel tempo si potrà affrontare anche la controversa questione dell’espansione dei coloni ebrei in Cisgiordania, su cui Israele dovrà accettare un ridimensionamento e/o altre formule di integrazione che non compromettano l’autonomia palestinese. Si tratterà poi di ripartire dagli accordi di Oslo del 1993 e riconsiderare la formula “due popoli, due stati”, su cui sembra ancora convergere la comunità internazionale.

In altri termini, l’idea è quella di muoversi sulle basi delle risoluzioni Onu 242 e 338, secondo un piano che già nel 2020 aveva trovato convergenti gli Usa del presidente Trump e un diverso Netanyahu, in cui si configurerebbe un unico stato palestinese su circa il 70 per cento della Cisgiordania, un’ampliata Striscia di Gaza, e con capitale un’area di Gerusalemme.

Sullo sfondo occorrerà valutare in ogni caso il processo di rinnovamento della leadership israeliana, troppo compromessa dall’attuale deriva ultranazionalista che sta invece spingendo per una occupazione prolungata su Gaza e, alla pari di Hamas che non vuole Israele, di fatto non vuole una Palestina autonoma: è emblematico che siano proprio le correnti estremiste e radicalizzate delle due parti a non accettare il riconoscimento dell’altro.

Evitare l’allargamento

Buona parte della comunità internazionale è dunque convinta che un prolungamento dell’occupazione di Gaza, con l’aggravarsi delle distruzioni e delle stragi di civili, espone all’allargamento del conflitto, oltre a essere in contrasto con i principi di necessità e proporzionalità cui deve uniformarsi il progetto di Israele di destabilizzare Hamas.

Un solo obiettivo concreto è necessario perseguire per un futuro di stabilità anche in Medio Oriente: evitare lo scenario di una “guerra esistenziale” tra palestinesi e israeliani, e dar voce al linguaggio del diritto internazionale e della diplomazia. Se così non fosse, si farebbe il gioco dei terroristi di Hamas, e dei vari attori che vogliono alimentare il disordine globale per affermare i loro disegni egemonici contro l’occidente.

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