Padre Ibrahim Faltas, vicario della Custodia di Terra Santa a Gerusalemme, si è speso per molti anni come mediatore di pace tra israeliani e palestinesi. Il francescano di origine egiziana si distinse durante i fatti di Betlemme, in Cisgiordania, nel 2002. La Basilica della Natività fu assediata per 39 giorni dall’esercito israeliano durante la Seconda intifada. Qui Padre Faltas si guadagnò l’appellativo di «custode di ferro» per aver difeso insieme agli altri francescani la basilica, in cui si erano rifugiati circa 240 tra miliziani palestinesi e civili, e per gli sforzi tesi a pacificare la situazione. In questi giorni è in Italia e sta incontrando i fedeli in varie diocesi per parlare loro della guerra a Gaza e della situazione, sempre più drammatica, in Cisgiordania.

Lei è da vari decenni in Terra Santa, qual è la sua personale percezione di questo conflitto?
La mia personale esperienza di vita in Terra Santa dura da 35 anni e posso dire che non ho mai visto tanto odio e tanta violenza. Abbiamo vissuto lunghi periodi di tensione, due intifada, l’assedio della Basilica della Natività, ma la sofferenza di questa guerra non è paragonabile ad altre situazioni di conflitto. La mia percezione iniziale purtroppo non è cambiata. Troppe morti e troppa distruzione. Non vedo nessun cambiamento, purtroppo, nessun segnale che questa guerra possa finire al più presto.

Come sta reagendo la gente a Gerusalemme e in Cisgiordania?
La gente sta male. La situazione non è grave come a Gaza, ma è molto difficile. C’è molta tensione e la gente ne risente nella vita e nei rapporti con gli altri. Anche in Cisgiordania ci sono scontri frequenti fra la popolazione e l’esercito israeliano. Ci sono stati tanti morti, tanti feriti, tanti arresti e tante case distrutte. A Gerusalemme e in Cisgiordania la gente ha paura e ha perso la fiducia. Prima, nonostante le tensioni e le difficoltà socio-politiche si riusciva ad avere un minimo di convivenza fra le due parti.

Come stanno vivendo la situazione i cristiani di Betlemme?
I cristiani di Betlemme vivono malissimo. La guerra ha impedito la possibilità di avere lavoro. La maggior parte dei cristiani di Betlemme lavora nel turismo, e i pellegrinaggi portavano tanto lavoro. Dopo due anni di pandemia, eravamo tornati a vedere la Terra Santa piena di pellegrini. Ora siamo tornati a vedere Betlemme chiusa, vuota, triste. Tante famiglie non hanno più il sostegno che arriva dalla dignità del lavoro. Pensate agli alberghi, ai ristoranti, ai trasporti, all’artigianato. Tutto fermo e senza poter immaginare quando finirà il dramma della guerra.

In particolare, che cosa le raccontano i bambini?
I bambini hanno gli occhi tristi. Non riescono a sorridere, perché hanno davanti solo immagini di guerra che sconvolgono e impauriscono. Sono le prime vittime di questa tragedia. Ci sono stati 7.000 bambini morti solo a Gaza, e tanti bambini anche piccolissimi sono rimasti senza genitori, con un futuro incerto e già segnato. I sopravvissuti porteranno traumi che sarà difficile superare quando tutto sarà finito. Li sento cantare e scrivere pensieri profondi sulla necessità di vivere in pace. I bambini della Terra Santa crescono più in fretta dei loro coetanei, perché vivono una realtà piena di immagini negative. Cerchiamo di proteggerli, ma non è semplice. Mi emoziona la loro sensibilità, ma sono preoccupato per il loro futuro.

Come sono cambiati i rapporti tra ebrei e arabi israeliani dopo l’inizio della guerra?
Sono cambiati in peggio. Persone che cercavano di convivere pacificamente perché colleghi di lavoro ora non si salutano e non si parlano. Sono situazioni che hanno sconvolto le relazioni perché c’è la paura, c’è la sfiducia reciproca. Sarà difficile ricostruire queste relazioni, sarà difficile riprendere un clima sereno tra loro.

Che ruolo possono avere i cristiani palestinesi in questa situazione?
Da sempre i cristiani sono stimati e apprezzati da tutti per la capacità di essere mediatori saggi fra le due parti. Grazie a Dio questa stima rimane. Sono responsabile per la Custodia dei rapporti con lo Stato d’Israele e l’Autorità palestinese, e conosco bene entrambe le parti. Come cristiani possiamo e dobbiamo continuare a chiedere la pace, e a lavorare per poterla ottenere in Terra Santa.

È preoccupato anche per la zona di Nazareth?
Il nord d’Israele è purtroppo una zona calda e soggetta a essere un altro scenario di guerra. Gli attacchi dal Libano si fanno più frequenti. Certamente sono preoccupato perché la Terra Santa sarebbe ancora di più oppressa dalla violenza della guerra. Conto sempre sulla coscienza dei governanti, e spero che la situazione non si aggravi.

Gli israeliani si lamentano spesso, dall’inizio della guerra, della scarsa solidarietà delle opinioni pubbliche nei loro confronti, dicendo che ora la solidarietà internazionale è tutta per i palestinesi. Che vorrebbe dire loro?
Ho sempre difeso la vita che è sacra, come dice papa Francesco. I morti e i feriti, la sofferenza di bambini, donne, uomini, anziani, disabili per me non hanno distinzione di razza, nazionalità, religione. Non vorrei guardare neanche ai numeri dei caduti di entrambe le parti. Penso che ora la Palestina abbia pagato un prezzo molto alto per l’attacco di Hamas. È comunque la parte più debole, e bisogna smettere di usare le armi contro i civili inermi e indifesi di entrambe le parti.

Cosa si dovrà fare per arrivare a una convivenza pacifica in Terra Santa?
L’unica strada da percorrere è quella che porta alla pace, e bisogna percorrerla dialogando. Chi ha il potere ora deve cessare il fuoco, deve avere e sentire la responsabilità di tante vite perdute. Deve farlo perché, nonostante tanto dolore, dobbiamo credere che la pace sia ancora possibile!

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