L'unico parziale precedente risale a 33 anni fa, epoca della prima guerra del Golfo. Saddam Hussein lanciava gli Scud su Israele e per le strade di Tel Aviv si potevano vedere militari con una divisa diversa da quella dell'esercito dello Stato ebraico.

Erano americani che insegnavano ai loro colleghi locali come usare i Patriot, sistema di missili in grado di colpire e distruggere in cielo gli ordigni nemici. Ma a parte quella limitata esperienza mai c'era stata in precedenza una richiesta, o un'accettazione, di un aiuto esterno. Dopo la Shoah, lo Stato dei sopravvissuti era sorto sull'epica del contadino-soldato, la capacità di difendersi da soli in caso di attacco senza fare affidamento su nessuno. Essere forti affinché non si ripetessero gli orrori della seconda guerra mondiale.

Tantomeno, nei settantacinque anni di storia di Israele, i suoi leader si sono fatti imporre una strategia su come comportarsi in caso di aggressione. Andavano bene le alleanze purché non fossero prevaricatrici. Quel che è bene per gli ebrei lo decidevano gli ebrei. E ha funzionato, con la sequela di conflitti vinti persino contro l'insieme del Paesi arabi uniti all'offensiva. Il 7 ottobre scorso tutto è cambiato.

Nulla è più come prima

E non poteva essere altrimenti perché le condizioni sono mutate, nulla è paragonabile al 7 ottobre. Il pilastro principale dello Stato, cioè l'affidabilità dell'esercito, è caduto sotto i colpi degli assassini a sangue freddo di Hamas. Si discuterà a lungo sulle responsabilità (e nei sondaggi l'80 per cento della popolazione attribuisce la colpa a Benjamin Netanyahu: lui ha detto che a ostilità finite ne risponderà, una prima ammissione dell'inevitabilità di finire sotto accusa) ma il dato di fatto rimane.

Israele è vulnerabile e deve ristabilire velocemente i presupposti per la sua sicurezza. Non solo. Israele, e anche questo è un inedito, non ha un leader carismatico, dopo i rovinosi rovesci di Netanyahu, fiaccato prima dagli scandali, poi dall'idea di sottomettere il potere giudiziario al politico, dalla formazione di un governo che ha inglobato compagini dell'estrema destra razzista, e infine dalla carneficina consumata sotto il suo mandato.

Sotto tutela

Ecco allora l'obbligo, per contrastare una minaccia da Sud (Gaza), da Nord (Libano), da più lontano (Iran), non solo di bussare con il cappello in mano alla porta di Joe Biden, nonostante i pessimi rapporti, ma addirittura di farsi da lui mettere sotto tutela per non commettere errori imperdonabili nella gestione del conflitto.

Un Netanyahu commissariato e alla disperata ricerca di un futuro politico che non avrà, un leader abituato a trattare da pari a pari con gli inquilini della Casa Bianca e talvolta a deriderli come con Obama cercando addirittura di capovolgere il rapporto di forza, ora è costretto ad accettare di posticipare l'invasione della Striscia di Gaza per permettere ai soldati americani di posizionarsi meglio in Medioriente e dare un supporto più efficace alla difesa di Israele.

Con corollario di consiglieri a stelle e strisce che mettono il becco nella strategia da utilizzare una volta entrati nel pantano dell'area più popolata al mondo per ridurre al minimo le vittime civili. E in aggiunta le portaerei a supporto nelle acque del Golfo, mezzi e ordigni generosamente donati con un ponte aereo nei giorni scorsi.

Da sempre chi aiuta vuole al minimo condividere le decisioni. Dopo essersene disinteressata a lungo, l'America torna in Medioriente da protagonista. A conferma che la guerra iniziata il 7 ottobre non è più locale ma ha già dilatato i suoi confini.

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