A pochi giorni dall’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, i nodi più controversi sul futuro rapporto tra le due - governance, regole di concorrenza e diritti di pesca - non sono stati ancora sciolti. La missione in extremis del premier inglese Boris Johnson a Bruxelles per incontrare la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen non è servita a superare l’impasse e ha anzi rimarcato le distanze esistenti.

Quello che è emerso chiaramente dalle vicende negoziali, infatti, è il diverso carattere e approccio generale delle due parti, che avranno un impatto importante sulle relazioni future tra Londra e Bruxelles.

L’approccio del premier inglese Boris Johnson e del suo governo alle trattative si è rivelato profondamente ed inequivocabilmente ideologico, finalizzato a una Brexit concepita come uno strumento di riaffermazione dell’indipendenza e della sovranità britanniche.

Si spiegano così scelte altrimenti sorprendenti, in alcuni casi in palese violazione del diritto internazionale, che costeranno alla Gran Bretagna l’accesso senza dazi e quote ad un mercato comunitario di 450 milioni di cittadini.

Ci si riferisce, in particolare, alla decisione di mettere in discussione alcuni punti cardine dell’accordo di recesso del febbraio 2019, in particolare sui controlli per le merci provenienti dall’Irlanda del Nord e sugli aiuti di Stato alle aziende britanniche, attraverso la proposta di legge sul mercato interno o modifiche alla prossima legge finanziaria britannica. O anche al rifiuto di inserire nei negoziati con Bruxelles il capitolo relativo alla politica estera, di sicurezza e di difesa.

Le linee rosse

La Commissione europea ha invece adottato un approccio più pragmatico, basato sostanzialmente sulla difesa di alcune “linee rosse” derivanti dal principio che i vantaggi dell’accesso al mercato interno sono legati all’obbligo di rispettarne le regole.

Gli Stati membri, da parte loro, si sono dimostrati straordinariamente compatti nella risposta alla Brexit e nell’adesione alla strategia negoziale della Commissione, disinnescando i tentativi britannici di dialogo bilaterale con le capitali.

L’approccio delle due parti fornisce anche diversi elementi su come probabilmente evolveranno le relazioni tra i due nuovi vicini. Sia nel caso di un accordo minimo tra le parti, sia nel caso – molto probabile – di un no deal, una Gran Bretagna desiderosa di riaffermare la propria identità e potenza è destinata a diventare un partner difficile e a rendere improbabile un rapporto di tranquillo vicinato.

Il governo Johnson appare infatti deciso a sfruttare in modo spregiudicato ogni occasione di vantaggio: preoccupa l’ambizione britannica di trasformarsi in una “Singapore sul Tamigi”, con relativo dumping fiscale, ma anche lo spettro di una competizione mercantilistica su risorse strategiche come la pesca e l’energia, sulla base di un approccio “UK first”.

In questa partita Londra potrà sfruttare la propria influenza su alcuni paesi membri, promuovendo veti ai progressi nel processo di integrazione o tolleranza verso una concorrenza sleale britannica in alcuni settori strategici europei, o addirittura incoraggiando nuove richieste di eccezioni (opt out) all’applicazione delle regole europee, al fine di minare la coesione dell'Ue.

In politica estera, Londra e Bruxelles resteranno verosimilmente allineate su gran parte dei dossier – da quello climatico al nucleare iraniano – ma non si può escludere una escalation di competizione tra le due nei confronti dell’alleato transatlantico, gli Stati Uniti di Joe Biden, volta ad affermarsi come partner prioritario. Inoltre, l’approccio ideologico alla sovranità da parte britannica è destinato inevitabilmente a scontrarsi con la visione di alcune capitali europee, e in particolare con quella di Parigi.

L’altra emergenza: la Scozia

Va poi evidenziato che, oltre a dover gestire una competizione politica e commerciale più o meno aggressiva, l’Unione si troverà anche coinvolta nella situazione potenzialmente esplosiva della Scozia che, soprattutto nel caso di un no deal, sarà ancora più determinata nelle sue richieste di indipendenza e cercherà una sponda bruxellese per avanzarle in una prospettiva di ricongiungimento europeo.

Infine, va ricordato che, se anche ci sarà un accordo, questo rappresenterà solo una parte del futuro delle relazioni tra Gran Bretagna e Unione europea, che dovranno essere definite nei prossimi anni. E non si prevedono cambiamenti di sorta all’orizzonte, dato che i responsabili politici a Londra e Bruxelles resteranno presumibilmente al loro posto fino al 2024, anno delle elezioni europee e delle elezioni generali britanniche.

Niente relazioni speciali

La “relazione speciale” tra Unione europea e Regno unito evocata negli scorsi quattro anni difficilmente si realizzerà: Bruxelles deve prepararsi a gestire, con ogni probabilità, un vicino scomodo. Il pragmatismo europeo dovrà quindi tenere la barra dritta, nella consapevolezza di essere in una posizione di vantaggio legata alla sua forza economica e commerciale.

Allo stesso tempo, e prioritariamente, l’Unione europea dovrà definire in maniera chiara una visione degli interessi strategici condivisa dai suoi Stati membri, che possa orientare la sua azione politica nei confronti della Gran Bretagna ma anche degli altri partner regionali e internazionali, e allo stesso tempo garantire la coesione interna.

L’Unione avrà a che fare con una nuova, turbolenta area di vicinato oltre a quella orientale e nordafricana, e per gestirla dovrà mobilitare tutte le leve a sua disposizione - da quella commerciale a quella diplomatica e politica.

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