Il 5 ottobre l’Opec+, il cartello dei maggiori paesi produttori di petrolio, ha deciso di ridurre la produzione di due milioni di barili al giorno per sostenere i prezzi del greggio, sfidando così l’occidente alle prese con il caro bollette.

È stato uno schiaffo alle richieste di Joe Biden, che chiedeva di non tagliare la produzione. La reazione americana è stata immediata: l’amministrazione democratica ha parlato di una riduzione «non necessaria» e, dicendosi delusa, ha criticato una scelta «miope».

Biden ha anche fatto sapere che Washington potrebbe rivedere le forniture di armi all’alleato storico, il modo più efficace per far intendere che le relazioni con Riad hanno toccato uno dei punti più bassi della storia.

La Casa Bianca in effetti ha cercato fino alla fine di fare pressione sull’Opec+ affinché non procedesse a un taglio che rischia di far salire i prezzi dell’energia e della benzina a un mese dalle elezioni di metà mandato, azzoppando così gli sforzi dei democratici a mantenere il controllo del Congresso.

Riad con la Russia

Il pressing, però, non ha avuto buon esito. L’Arabia Saudita ha infatti deciso di schierarsi con la Russia per una riduzione della produzione, voltando le spalle a Washingotn e riaccendendo violente critiche contro la Casa Bianca per la recente e infruttuosa visita di Biden a Riad.

«Non è stato uno spreco di tempo», ha respinto le accuse John Kirby, il portavoce del consiglio per la sicurezza nazionale ma sono in molti, come l’ex negoziatore Aaron David Miller su Foreign Policy a scrivere che «l’Arabia saudita non è più un alleato degli Usa».

Inoltre, ha suggerito sempre l’analista, la mossa saudita è stata fatta con la consapevolezza che avrebbe danneggiato il presidente americano in patria e all’estero.

L’Opec+ si è mostrata «allineata con la Russia», ha aggiunto la portavoce della Casa Bianca parlando senza mezzi termini di un «errore» da parte del cartello dei produttori. 

Il presidente si è inoltre impegnato a consultare immediatamente il Congresso per valutare gli strumenti e i poteri necessari per ridurre il controllo dell'Opec+ sui prezzi dell’energia, e ha aperto a un nuovo rilascio di riserve petrolifere strategiche per calmierare i prezzi.

Basterà? Sono in molti a dubitare. Anche l’Europa ha guardato con preoccupazione al taglio della produzione. L’Arabia Saudita si mette così in rotta di collisione con gli Stati Uniti e l’occidente e, mostrandosi alleata con la Russia, si esponde a conseguenze politiche non trascurabili.

Per l’Opec+ il taglio deciso è il maggiore dal 2020 ma, in realtà, si tradurrà in una riduzione che è la metà di quella annunciata.

Molti stati membri stanno producendo meno delle loro quote e quindi sono già in linea con i nuovi tetti senza dover ricorrere a un taglio della produzione. I mercati azionari comunque hanno reagito con preoccupazione al taglio del cartello temendo ulteriori tensioni geopolitiche.

Un cambio di rotta

La mossa del principe saudita Mohammed bin Salman ha chiarito inequivocabilmente al presidente degli Stati Uniti che Riad avrebbe fatto ciò che gli conveniva quando si trattava dei prezzi del greggio e del suo stretto rapporto con il presidente russo Vladimir Putin, indipendentemente dalle obiezioni o dagli interessi degli Stati Uniti.

I rapporti tra Stati Uniti e Arabia saudita hanno avuto negli ultimi settant’anni alti e bassi, come nel caso dell’embargo petrolifero del 1973, gli attacchi alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001 e l’assassinio dell’editorialista del Washington Post Jamal Khashoggi nel 2018 nel consolato saudita a Istanbul.

Ma tutti questi momenti di tensione sono stati superati perché non toccavano il fulcro dell’alleanza stabilita nel lontano 1945 dal presidente americano Franklin D. Roosevelt e il re saudita Ibn Saud, che voleva trovare un nuovo partner rispetto alla declinante presenza della Gran Bretagna in Medio oriente.

Il punto fondamentale di questa alleanza, fin dall’inizio, è stato di tipo esclusivamente economico, cioè consisteva nel fatto che l’America in cambio di vendita di armi e informazioni di intelligence chiedeva a Riad di essere il “produttore petrolifero di ultima istanza”, cioè colui che è chiamato a calmierare i prezzi aumentando la produzione quando questi siano fuori controllo o eccessivi per gli interessi occidentali.

Washington si è dimostrata pronta a chiudere gli occhi sul mancato rispetto dei diritti umani, sulla condizione femminile o sulla rigida ortodossia di tipo wahaabita, ma non è affatto disposta a tollerare il mancato rispetto di quell’accordo economico-energetico siglato sull’incrociatore americano USS Quincy, ormeggiato nel Grande lago amaro del Canale di Suez.

Come cambiano i rapporti?

Secondo il segretario di Stato americano, Antony Blinken, non si tratta «di rompere» il rapporto Usa-Arabia Saudita, ma piuttosto di «ricalibrarlo per essere più in linea con i nostri interessi e i nostri valori».

Come? Facendo pressioni informali su Riad affinché rispetti i patti sull’energia, perché su quello si basa il patto tacito che lega i due paesi da ottant’anni: in caso contrario Washington si sentirà autorizzata a ridurre la vendita di armi e il supporto sulla sicurezza del regno saudita rispetto alla minaccia iraniana nel Golfo.

Il principe Mohamed Bin Salman, forse, ha sottovalutato il peso della inevitabile reazione americana e le sue conseguenze di lungo periodo.

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