Sarebbe riduttivo, e suonerebbe consolatorio, circoscrivere gli scontri in Kosovo (feriti anche 14 militari italiani) al caso che li ha generati, la rivolta dei serbi contro l’insediamento dei quattro sindaci albanesi nel nord del Paese, eletti proprio perché i serbi, che sono stragrande maggioranza in quell’area, hanno boicottato le urne.

Ogni pretesto è utile per infiammare un conflitto che cova sotto la cenere, irrisolvibile o almeno irrisolto da secoli e ogni tentativo di stabilizzazione altro non è che un intervallo tra una guerra e l’altra.

Il Kosovo ha meno di due milioni di abitanti, i serbi rimasti, circa 120mila, sono concentrati a settentrione del fiume Ibar, a ridosso della madrepatria. I numeri esigui, quanto a territorio e abitanti, non devono ingannare: sono inversamente proporzionali all’importanza geostrategica perché siamo su una faglia di mondi.

Com’è già successo, parafrasando un detto dell’economia, un battito d’ali di farfalla a Pristina può provocare un cataclisma in Europa.

Mito fondativo

Se la storia per certi popoli è un eterno presente, per i serbi è più vero che per altri. Il loro mito fondativo è l’epica battaglia di Kosovo Polje, 28 giugno 1389, tra le forze cristiane guidate dal principe Lazar Hrebeljanovic e l’esercito ottomano del sultano Murad I, vincitore ma ucciso dal nobile Milos Obilic, eroe eponimo se ce n’è uno.

Nella narrazione tramandata, una gloriosa sconfitta per aver comunque fermato la penetrazione dell’islam nel vecchio continente.

Non bastasse, il primo patriarcato ortodosso autocefalo dei serbi ebbe sede a Pec, sempre in Kosovo, e nei monasteri della valle attigua sono stati conservati i cimeli artistici, letterari, religiosi di quel popolo.

Da qui, un attaccamento persino morboso a quel fazzoletto di terra, trasversale alle classi, alle idee politiche, alle generazioni. Anche i giovani belgradesi delle classi acculturate, aperti, cosmopoliti, pienamente inseriti nella post-modernità, conservano il convincimento che “il Kosovo è il cuore della Serbia”, come ha del resto scritto lunedì il tennista Novak Djokovic sul monitor di una telecamera al termine della partita vinta al Roland Garros proprio mentre si consumava la guerriglia in piazza.

Nel corso del Novecento il Kosovo ha cambiato maggioranza etnica diverse volte. Nella Seconda Jugoslavia di Tito era una provincia della Serbia nella quale, pian piano, gli albanesi erano riusciti a rovesciare a loro vantaggio il primato demografico perché più fecondi.

Fu in occasione del seicentesimo anniversario di Kosovo Polje nel 1989, che Slobodan Milosevic tracciò i contorni del suo programma politico nazional-socialista.

In seguito all’aggressione di alcuni consanguinei tuonò con parole di fuoco dal palco: «Nessuno avrà più diritto a toccare un serbo», «Dove c’è un serbo là è la Serbia». E i Balcani s’infiammarono.

La repressione serba sui kosovari albanesi convinse la Nato a intervenire nel 1999 per fermare i pogrom e la conseguenza fu la creazione di uno Stato indipendente nel 2008, riconosciuto però solo da 101 Stati su 193 delle Nazioni Unite, con l’assenza pesante oltre che di due membri del Consiglio di sicurezza, Russia e Cina, anche di cinque paesi europei, Spagna, Cipro, Grecia, Slovacchia e Romania.

Una larga parte dei serbi che abitava il Kosovo decise di andarsene per non sottostare a un governo degli albanesi e per via di alcune sanguinose rappresaglie dei nuovi padroni.

La Serbia, provata ben quattro guerre jugoslave, con l’economia a pezzi e un esercito in sfacelo, non aveva i mezzi militari per reagire. Ma nessun politico di Belgrado, nonostante le pressioni della comunità internazionale, si è mai sognato e nel futuro prevedibile mai si sognerà di riconoscere il Kosovo, pena una perdita repentina di consensi. Così anche l'attuale padre-padrone del Paese Aleksandar Vucic, il quale ha cercato di tenere a lungo uno sguardo strabico tra Bruxelles e Mosca, scisso tra il desiderio di aderire alla Ue e di conservare l'appoggio di Vladimir Putin in nome di un’alleanza e di una fratellanza che affonda le radici nella comune religione ortodossa.

Legame con Mosca

La guerra in Ucraina gli ha imposto di uscire dall'equivoco e, seppur obtorto collo, si sta rivelando più forte il desiderio di mantenere il padrinaggio del Cremlino.

La Serbia non aderisce alle sanzioni contro la Russia, Belgrado si è trasformata in una piccola Mosca con almeno, si stima, seimila aziende russe che hanno spostato là i propri uffici per eludere il boicottaggio.

Vladimir Putin, dal canto suo, vede nell'instabilità dei Balcani un’opportunità per aprire un’area di crisi nel fianco sud-est dell’Europa e per estendere la sua influenza.

I punti delicati sono due. La Bosnia anzitutto, sui cui perennemente incombe l'incubo di una scissione evocata dal leader della minoranza serba Milorad Dodik, buon amico dello zar con il quale ha avuto di recente il terzo incontro da inizio dell'anno. E poi il Kosovo.

Pochi ricordano quanto avvenuto nel 1999 quando un contingente di soldati russi di stanza in Bosnia si precipitò a Pristina per occupare l’aeroporto prima dell'arrivo delle truppe Nato, si sfiorò l'incidente e per fortuna si arrivò a un accordo.

Con Putin il sostegno alla minoranza serba è accresciuto e non per caso è stato il ministro degli Esteri, Segej Lavrov, il primo a commentare i fatti di lunedì evocando «una situazione potenzialmente esplosiva nel cuore dell'Europa».

Quanto a Vucic ha annunciato che il 28 giugno fonderà un nuovo partito. 28 giugno. Data fatale. Della battaglia del Kosovo e del discorso di Milosevic. E Vucic di Milosevic fu ministro dell’Informazione. Nei Balcani tutto si tiene. E tutto ritorna.

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