Il 24 febbraio 2022, inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, sarà certamente ricordato a lungo: infatti, la rilevanza dell’Ucraina e della Federazione russa come fornitrici di materie prime, agricole ed energetiche, è ben nota e altrettanto rilevanti sono gli effetti della guerra sull’economia europea e mondiale e sulla vita di ciascuno di noi. Effetti che, sommati a quelli provocati dalla pandemia di Covid non ancora risolti, mettono in luce i grandi limiti del fenomeno della globalizzazione dei mercati.

La globalizzazione ha avuto conseguenze positive ma in molti campi è risultata eccessiva – si pensi alla concentrazione di alcune attività produttive in aree ristrette come i microchip a Taiwan – e non è stata governata adeguatamente. L’Unione europea ha tratto vantaggi dalla delocalizzazione di molte produzioni ma ha rinunciato a mantenere sul proprio territorio attività strategiche e oggi ci scopriamo vulnerabili.

L’incremento dei prezzi

I prezzi delle principali commodities agricole stavano già attraversando da diversi mesi una fase di crescita, in parte dovuta ai maggiori costi dei noli marittimi e in parte attribuibile ad andamenti meteorologici avversi in diverse aree del globo. In Italia abbiamo avvertito il balzo delle quotazioni del frumento duro, cresciute a inizio 2022 dell’80 per cento rispetto a un anno fa e raddoppiate rispetto all’inverno 2020, ma prima della guerra erano rilevanti anche gli aumenti per il frumento tenero (+40 per cento) e per il mais (+30 per cento), sempre rispetto a dodici mesi prima.

La guerra sta provocando blocchi o limitazioni dei flussi commerciali dei cereali, derivanti per i prodotti ucraini dal fermo del porto di Odessa e per quelli russi dalle sanzioni commerciali adottate da numerosi paesi. Il conseguente aumento dei prezzi, attribuibile oggi in gran parte a speculazioni, appare destinato a protrarsi a causa della riduzione delle produzioni e delle scorte e degli elevati costi di trasporto.

L’incremento dei prezzi dei prodotti agricoli ha ovvi riflessi sui prezzi dei beni alimentari e ancor di più ne avrà nei prossimi mesi.

A marzo 2022 l’indice Fao dei prezzi dei beni alimentari, calcolato a livello mondiale, ha segnato un incremento record su base mensile (+13 per cento), mentre l’aumento rispetto a marzo 2021 è del 34 per cento e quello rispetto a marzo 2020 supera il 67 per cento. Si tratta di variazioni estremamente rilevanti che, anche se ancora inferiori a quelle registrate nel primo semestre del 2008 e nella primavera del 2011, colpiscono soprattutto i consumatori dei paesi più poveri, nei quali la spesa per il cibo supera spesso il 50 per cento di quella totale (a paragone nel nostro paese la spesa per alimenti è pari al 15 per cento).

Sempre utilizzando l’indice Fao si può notare come i prezzi dei cereali e derivati e di tutti gli altri alimenti di origine vegetale stiano crescendo in misura superiore rispetto al dato generale, mentre l’aumento è più contenuto per gli alimenti di origine animale.

Questi dati fanno riflettere sulle potenziali devastanti conseguenze della guerra sui paesi meno sviluppati, molti dei quali fortemente dipendenti per le importazioni di cereali proprio da Russia e Ucraina.

La produzione in Ucraina

Nello scorso decennio l’Ucraina ha incrementato la produzione di mais, destinato in larghissima parte all’esportazione: i principali acquirenti dei 28 milioni di tonnellate esportate nel 2020 (dati Fao) sono stati l’Unione europea (31 per cento) e la Cina (28 per cento). Tra gli stati comunitari i primi tre importatori sono Spagna, Olanda e Italia.

In Ucraina grandi incrementi produttivi e commerciali hanno coinvolto anche il frumento tenero, l’orzo e il girasole: quest’ultimo sia come materia prima (semi) sia come prodotti di prima trasformazione (oli destinati all’industria alimentare e panelli destinati all’alimentazione animale). Mentre i dati Fao giungono al 2020, i dati Istat relativi all’ultimo triennio (2019-2021) mostrano un ulteriore incremento delle importazioni italiane di beni agroalimentari dall’Ucraina, passate nell’ultimo anno da 542 a 641 milioni di euro e costituite in larga parte dai beni sopra ricordati.

L’onda lunga degli effetti dell’invasione russa e della guerra in Ucraina –primo e terzo esportatore di grano nel mondo – è già arrivata sulle tavole del nostro paese, e non solo, e appare destinata a ingrossarsi nei prossimi mesi.

Anche se le ostilità finissero nei prossimi giorni, la raccolta dei cereali a ciclo autunno-primaverile (frumento e orzo) appare problematica: tenendo conto che la maggior parte di queste colture è ubicata nel centro-sud dell’Ucraina, in aree direttamente coinvolte dalle azioni belliche, che parte delle strutture di conservazione e distribuzione dei cereali sono inagibili, che le infrastrutture di trasporto sono in gran parte danneggiate, quasi certamente una parte considerevole dei cereali non sarà raccolta e/o non potrà essere esportata.

Diversa appare la situazione per quanto riguarda le colture a ciclo produttivo primaverile-estivo, mais e girasole. Il mais è coltivato prevalentemente nelle regioni centrali e settentrionali ucraine, meno coinvolte sinora da azioni belliche: le autorità locali contano di seminare entro il prossimo mese il 70 per cento delle superfici. Più complessa la situazione del girasole, di cui l’Ucraina è il primo produttore mondiale: la coltura si concentra nell’est e sud-est del paese, dove i danni diretti e indiretti della guerra sono maggiori e le semine primaverili sono a forte rischio.

Catene di approvvigionamento

Le problematiche delle catene di approvvigionamento di settore, dalla produzione al trasporto, alla trasformazione, allo stoccaggio, fino alla vendita al dettaglio, sono anche dovute in larga parte allo shock che sta colpendo il mercato energetico con gravi e importanti incognite per l’Italia e l’Europa, oggi poste dinanzi alla necessità di affrontare un annoso problema legato alla propria sostenibilità economica: la capacità di autoapprovvigionamento di materie prime tanto nel breve, quanto nel medio e lungo periodo.

In Italia, l’import di beni agricoli negli ultimi dieci anni è cresciuto del 55 per cento: oggi oltre la metà del cibo che consumiamo è importato. Il 64 per cento del nostro fabbisogno di grano per produrre pane e biscotti arriva dall’estero, così come oltre il 50 per cento del mais utilizzato per alimentare il bestiame. Ma se la dipendenza del nostro paese dalla Russia per le importazioni risulta prevalentemente limitata al grano, con appena il 2,3 per cento del totale, a preoccupare di più è la dipendenza delle nostre filiere agroalimentari dall’Ucraina, da cui compriamo mais, per un volume del 13 per cento sul totale delle forniture provenienti dall’estero nel 2020 (dati Ismea), frumento tenero, per il 5 per cento sul valore totale delle forniture, ma soprattutto oli grezzi di girasole. Mentre le importazioni di grano possono essere sostituite, quelle di mais e girasole necessitano di un incremento delle semine.

Le ripercussioni della guerra appaiono fortemente diversificate tra filiere produttive. Il settore dei seminativi (cereali e semi oleosi) vede un incremento dei costi di produzione legati ai fertilizzanti e ai carburanti ma questi rincari dovrebbero essere più che compensati dagli aumenti dei prezzi dei prossimi raccolti. Gli aumenti dei costi energetici e dei concimi coinvolgono anche le produzioni orticole e floricole intensive effettuate in serra: per questi prodotti la concorrenza interna con le produzioni a pieno campo rischia di limitare fortemente la redditività.

I maggiori problemi riguardano, però, le produzioni animali: nel nostro paese sia la produzione di carni (bovine, suine ed avicole) sia quella di latte bovino e di uova sono concentrate in allevamenti intensivi che utilizzano grandi quantità di mangimi; il loro costo segue quello dei prezzi delle materie prime da cui sono costituiti (cereali e farine proteiche) ed è in forte aumento, mentre gli incrementi dei prezzi di carni e latte sono limitati sia per le stagnazione o riduzione dei consumi, che spingono il settore distributivo a non aumentare i prezzi, sia per la concorrenza di carni e latte prodotti in altri paesi dove l’allevamento utilizza maggiormente il pascolo.

Ma tutte le filiere appaiono in sofferenza per la cronica difficoltà di trasferire gli incrementi dei costi di produzione agricoli agli stadi successivi (trasformazione e distribuzione). Difficoltà che deriva anche dalla scarsa capacità del mondo agricolo di concentrare e gestire efficacemente l’offerta a fronte dei settori a valle ben più concentrati e aggressivi.

Mercato europeo

Anche a livello europeo, nella bilancia degli approvvigionamenti di prodotti agricoli, l’estero e l’Ucraina, in particolare, pesano sempre di più. Da oltre quindici anni, infatti, il saldo commerciale dei prodotti agricoli verso il resto del mondo si fa sempre più negativo, con una forbice di differenza tra esportazioni e importazioni dei prodotti agricoli che dal 2005 si è solo allargata, raggiungendo il massimo nel 2021 quando ha toccato l’1,9 per cento (Eurostat), mentre i paesi Ue sono eccedentari di beni alimentari trasformati.

Nel 2017 poi, è entrato formalmente in vigore l’accordo di associazione già siglato tra Ue e Ucraina nel 2014, con cui è stata creata una zona di libero scambio globale e approfondita (Dcfta) che, di fatto, ha spalancato le porte del mercato europeo ai prodotti ucraini: cereali, semi oleosi, oli e grassi vegetali e animali i principali prodotti di scambio. Nel 2019, l’Ucraina arriva a fornire quasi la metà dei cereali e degli oli vegetali e un quarto della carne di pollame che viene consumata in Europa. Diverse le percentuali che legano le tavole europee alle coltivazioni russe: appena dell’1 per cento il peso del blocco annunciato da Putin sulle importazioni totali di grano nell’Unione europea, meno dello 0,5 per cento quello per il mais destinato all’alimentazione animale.

Il margine di “dipendenza” dell’Europa dall’agricoltura di paesi al di fuori dei propri confini, ad ogni modo, rischia di compromettere in modo sostanziale la competitività del continente rispetto alle sfide di sostenibilità non solo ambientale, ma anche economica e produttiva nel prossimo futuro. Il 2050, non sarà solo l’anno-obiettivo del Green deal europeo – la strategia con cui l’Unione si è impegnata a raggiungere la neutralità climatica – ma anche l’anno in cui la popolazione mondiale potrebbe toccare quota 10 miliardi di persone (Fao). Una pressione antropica sul pianeta che, per soddisfare la nuova domanda alimentare e sconfiggere la fame, necessiterebbe di un aumento della produzione agricola globale del 70 per cento rispetto ai livelli di inizio secolo.

Strategia produttiva

Il progressivo aumento della mole dei consumatori impone una strategia produttiva europea di ampio respiro che, se da un lato, non può trascurare gli intenti di sostenibilità definiti all’interno delle strategie Farm to fork e Biodiversity, dall’altro non può prescindere da un approccio che sia il più possibile flessibile e in grado di rispondere prontamente a shock globali come guerre o pandemie, con strumenti strategici funzionali a garantire un sufficiente livello di autoapprovvigionamento di materie prime.

In questa prospettiva, la strada intrapresa dall’Europa e dall’Italia va adattata e contestualizzata rispetto alle dinamiche di crisi in corso. Secondo numerosi studi scientifici gli obiettivi del Green deal (25 per cento di terreni coltivati ad agricoltura biologica, 10 per cento dei terreni a riposo per scopi ambientali, riduzione massiccia dell’impiego di fertilizzanti e prodotti per la difesa delle colture) provocheranno una forte riduzione delle produzioni europee, un elevato incremento delle importazioni, un aumento dei prezzi dei beni alimentari sia a livello europeo sia mondiale.

Innovazione tecnologica

L’articolo 33 del Trattato costitutivo dell’Unione europea sottolinea l’importanza dell’incremento della produttività agricola e dell’innovazione come fattore determinante, mentre gli obiettivi del Green deal sembrano andare in direzione opposta. Proprio l’innovazione, tanto nel caso europeo quanto in quello italiano, è il “capitale” su cui si è scelto di investire e che ci permette, oggi, di essere tra i protagonisti del commercio globale dell’agrifood.

Dalle tecnologie di evoluzione assistita o di precision farming, all’agricoltura 4.0, all’utilizzo critico degli strumenti più tradizionali di efficientamento produttivo, i mezzi non mancano ma sono spesso ostacolati a livello normativo e dalla lentezza del trasferimento dai laboratori al mondo produttivo.

Nell’ultimo decennio grazie alle tecnologie di miglioramento genetico si è compreso come accelerare processi che già avvengono naturalmente per sviluppare varietà sicure non solo per la salute umana e del pianeta, ma anche per la resistenza che esse presentano alle calamità naturali e ai rischi legati al cambiamento climatico. Anche l’agricoltura 4.0 sta dando i suoi frutti.

In Italia, il comparto che ha portato il digitale e l’automazione nell’agricoltura, ha raggiunto un fatturato complessivo di 1,6 miliardi di euro nel 2021, con una crescita del 23 per cento rispetto al 2020 (Osservatorio Smart AgriFood). Grazie alla riduzione dei costi e a una maggiore produttività – fino al +10 per cento –, l’innovazione tecnologica applicata ha le potenzialità per diventare un elemento strutturale nei processi di produzione, trasformazione e commercio del settore agricolo.

Del resto, ci sono strumenti efficaci che funzionano storicamente e che non possono essere abbandonati in questo momento di crisi, anche se questo dovesse significare rimodulare vincoli e obiettivi del Green deal europeo e, in particolare, della strategia Farm to Fork. Alcuni prodotti per la difesa delle colture ne sono la dimostrazione: essi permettono di aumentare l’efficienza produttiva dei terreni e il loro utilizzo comporta un minor consumo di carburanti per il trasporto e, quindi, una riduzione della CO2. Un esempio ne è il glifosate, uno degli erbicidi più diffusi al mondo, ritenuto sicuro dalla scienza e da tutti i principali enti di controllo e sicurezza del mondo.

A ostacolare, però, la capacità del mercato agricolo europeo di provvedere al proprio autosostentamento nei momenti di crisi e di adattarsi rapidamente alle crisi, sembrano essere i meccanismi di approvazione degli strumenti d’innovazione a disposizione, che spesso ritardano o bloccano lo sviluppo della ricerca e della capacità di trasformazione dei prodotti agricoli. Capacità che rendono l’Europa uno dei protagonisti nei processi globali di trasferimento di tecnologie. Sarebbe opportuno, per esempio, ridurre i tempi legati all’introduzione delle nuove molecole sviluppate per l’agricoltura, sia convenzionale sia biologica: strumenti che stanno portando a notevoli risultati nella definizione di colture sostenibili da un punto di vista ambientale, produttivo ed economico.

Oggi più che mai, la sostenibilità è un binario che corre tra due strade parallele: quella delle attività umane e quella del pianeta. L’innovazione può e deve avere il compito di non farle scontrare grazie a quella che Darwin avrebbe definito la nostra migliore capacità di adattamento e che, in fondo, è quella che ci permette di essere ancora qui.

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