Il primo ministro armeno Nikol Pashinjàn lotta in questi giorni contro un’opposizione che lo accusa di aver tradito la patria, svendendo il Karabakh al nemico di sempre, la Turchia. Un tentativo di colpo di stato è stato avviato il 25 febbraio, condotto dalle forze armate che, il giorno prima, egli intendeva riformare. La guerra con l’Azerbaigian, spalleggiato da Ankara e modernamente equipaggiato, è stata condotta con armi ancora sovietiche e strategie antiquate. Putin, formalmente, ha difeso il primo ministro. Eppure, tutto differenzia gli uomini come Putin da Pashinjàn, un nuovo tipo di leader, lontano dal passato sovietico. Il destino dell’Armenia e la vita politica di questo giovane leader si sono giocati il 10 novembre in una videoconferenza con Putin e Ilham Alìev, il dinasta azero. Pashinjàn ha accettato di cedere tutti i territori occupati nel 1994 in cambio della presenza di una forza di interposizione russa, guidata dal generale musulmano Rustam Muradov, e l’assicurazione del collegamento fra Armenia e quel che resta del Karabakh armeno, attraverso il corridoio di Lacìn, una fascia di cinque chilometri presidiata dagli uomini di Muradov. Come nella settimana del 2018 che passò dalla sua uscita dal carcere alla sua nomina a primo ministro, Pashinjàn fa forse due passi indietro, per farne poi uno avanti. O per essere spazzato via.

L’Armenia oggi

Se guardiamo da vicino quello che è accaduto intorno al conflitto in Karabakh (o Artsàkh, in armeno), le cose sono più complesse che in seguito a un’ubriacatura da mapping geopolitico. L’Armenia moderna è sorta dal crollo nell’Urss, sul territorio della vecchia Armenia sovietica. Ma l’Armenia sovietica non radunava tutti i territori abitati dagli armeni in Urss, né tantomeno nel mondo. La diaspora armena è vastissima. Rispetto ai 3 milioni di abitanti della Repubblica, più di un milione vive nella Federazione russa, un altro negli Usa, e numerose e influenti sono le comunità armene in Francia, in Ucraina, in Iran. Stalin annesse all’Azerbaigian il Karabakh e il Nakhchevan, oggi svuotato di armeni, come tutte le regioni anatoliche e la Cilicia, terre ancestrali e baricentriche della civiltà armena per millenni. Tuttora persiste un’area armenofona in Georgia, un’altra in Abkhasia e nella parte confinante della Russia. In Azerbaigiàn, la popolazione armena di Bakù e della vicina Sumgait venne espulsa o uccisa in un sanguinosissimo pogrom nel febbraio 1988, il primo episodio di violenze di massa nell’epoca della perestrojka, episodio all’origine del conflitto in Karabakh. Questo indica una fortissima tensione nazionalista e irredentista, resa ancora più profonda dal ricordo del genocidio del 1915 da parte dei turchi e dei curdi, e rinfocolata dalle tre guerre per il controllo dell’Artsàkh. La prima guerra si concluse nel 1994 non solo con la vittoria degli armeni del Karabakh, ma anche con l’occupazione armena di regioni intorno all’exclave di lingua armena, ma abitate da azeri e kurdi, che vennero espulsi da quelle aree che gli armeni tentarono di ripopolare, con scarso successo, e che con il recente accordo di cessate il fuoco l’Azerbaigiàn ha ripreso sotto il suo controllo. La Repubblica d’Armenia è stata l’ostaggio di questa guerra permanente. Con un’estensione del suolo coltivabile ridotta, in epoca sovietica era un paese in cui il fulcro delle attività era legato al complesso militare-industriale. La sua sparizione rapidissima costò il crollo del pil del 53 per cento fra il 1991 e il 1993, una enorme migrazione stagionale o permanente in Russia e altri paesi, e una crisi così profonda che, nel 2001, Forbes la dichiarò peggiore economia dopo il Madagascar. In realtà, il Karabakh assunse in quel periodo una centralità economico-politica enorme per l’Armenia vera e propria. Un flusso ingente di denaro arrivò dalla diaspora e da potenze straniere per finanziare la guerra e, in particolare, l’esercito di difesa dell’Artsakh, ancora oggi separato dalle forze armate armene. Il gruppo dirigente dell’Artsakh, formato da ex-dirigenti locali del Pcus, del Kgb e dell’Armata rossa (come ovunque nello spazio ex-sovietico, vista la carenza di altri percorsi di formazione delle élite), con successo organizzò sia la resistenza che la costruzione di un piccolo ma efficiente stato nell’exclave del Karabakh. In breve, i dirigenti dell’Artsakh diventarono presidenti e primi ministri dell’Armenia vera e propria, piegando ogni esigenza di sviluppo a un’economia di guerra e alla raccolta di fondi per finanziarla, distribuendo il monopolio delle attività a una serie di oligarchi, e impedendo ogni iniziativa al di fuori del circuito oligarchico e clientelare. Questo blocco di potere si cristallizzò nel Partito repubblicano, guidato da Serzh Sargsjàn e da Robert Kocharjàn, karabakhi entrambi, ma più volte primi ministri e presidenti dell’Armenia, a turno. Il paese diventò non più il luogo «delle pietre urlanti», come lo descrisse Osip Mandel’štàm nel suo Viaggio in Armenia, ma un deserto piegato alla corruzione e al nepotismo di una serie di clan ingrassati dalla guerra in Karabakh.

Lotta alla corruzione

Un’opposizione si è creata già a fine anni Novanta, e al suo interno presto è emersa la figura di Nikol Pashinjàn. Giornalista, che presto assunse posizioni coraggiose. Per i suoi articoli su un caso di corruzione legato alla moglie di un deputato e a un barone universitario, venne condannato nel 1999 e il giornale in cui lavorava fu costretto a chiudere. Dal giornalismo di denuncia passò alla politica di opposizione, dove si rivelò una figura centrale nell’organizzazione politica. La prima uscita da capolista al parlamento per la coalizione Impeachment, contro l’eterno duo intercambiabile Kocharjan-Sargsjan (allora presidente e premier), ottenne nel 2007 solo l’1,2 per cento dei voti. Lavorò in seguito nella squadra del candidato alla presidenza Ter-Petrosjan. Durante le manifestazioni del 2008, è arrestato e condannato a sette anni di carcere; uscirà per un’amnistia nel 2011. Da allora lavorerà senza tregua per organizzare coalizioni civico-politiche che in otto anni lo porteranno al potere. Eletto deputato nel 2012, sviluppa l’organizzazione dell’opposizione in forma federativa e aperta. La Rivoluzione di velluto, all’inizio del 2018, lo vede leader incontrastato. Arrestato nuovamente ne uscirà, spinto dall’insurrezione, come primo ministro nominato obtorto collo da una maggioranza risicatissima, comprendente molta parte della vecchia guardia nazionalista e compromessa con l’oligarchia. Uscendo di scena, l’eterno primo ministro Sargsjàn pronunciò parole significative: «Lei, Pashinjàn, aveva ragione. E io, torto». Con intelligenza, Pashinjàn non sciolse subito l’assemblea nazionale, ma iniziò una coabitazione che, d’improvviso, fece saltare con le sue dimissioni, provocando lo scioglimento del parlamento e la formazione di una coalizione riformista civico-politica a suo sostegno, che ottenne l’incredibile risultato del 70 per cento dei voti.

Da primo ministro, inizia una rapida azione di smantellamento del controllo dell’oligarchia su un’economia asfittica e dominata da monopoli di servizi e di beni, anche alimentari, e per la liberalizzazione dell’iniziativa economica. La lotta alla corruzione si estende al nepotismo ed è accompagnata dalla reintroduzione dell’assistenza sanitaria gratuita per i minori. La sua politica ha subito avuto effetti imponenti, facendo schizzare l’aumento del pil annuo al 5 e poi al 7 per cento (il maggiore dello spazio post-sovietico) nei due anni del suo governo e migliorando non solo l’economia, ma estendendo le libertà e riducendo la corruzione. Il percorso è proseguito dopo la guerra, con le riforme dell’apparato giudiziario, della polizia, della chiesa apostolica armena, i cui metropoliti hanno dovuto vendersi le Bentley, e oggi delle forze armate. Il percorso è stato interrotto dalla pandemia e dall’attacco azerbaigiano, e oggi rischia di cadere per un golpe disperato delle forze oligarchiche. Viene da sperare che il Cremlino stia iniziando ad accettare il sorgere di democrazie e la fine del dominio delle oligarchie originate dalle nomenklature comuniste nello spazio post-sovietico, in cambio di una alleanza geopolitica.

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