Per fortuna che c’è Donald Trump. La ri-elezione presidenziale del magnate statunitense è stata un’inattesa, ma soprattutto non sperata manna dal cielo per l’Unione europea. Purché questa sia in grado di reagire, ma anche di agire elaborando, proponendo e perseguendo una chiara, netta, decisa e coerente politica interna ed estera.

I tempi e le procedure decisionali dell’Ue sono incompatibili con la democrazia contemporanea, lenti, asfittici, astrusi, difficilmente comunicabili. Un miscuglio di norme d’antan, come l’unanimità su temi rilevanti, la guida politica saldamente in mano a un organo intergovernativo, il Consiglio, la cui composizione cambia sovente di colore politico durante la legislatura, e con il parlamento frantumato in gruppuscoli eccessivamente nazionali da risultare talvolta una patetica vetrina per esercizi retorici privi di efficacia deliberativa su questioni scottanti.

Una risorsa per l’Unione

Un’opportunità che difficilmente ricapiterà perché di Trump tra i candidabili repubblicani se ne scorgono pochi (mentre i Democratici da un decennio sono alla ricerca del dopo Barack Obama). Tuttavia, il problema non è (solo) Trump.

La sua presidenza mette il dito nella piaga delle cogenti contraddizioni presenti in seno all’Ue. Non vale, non basta, certamente non risolve gli annosi problemi europei, reiterare come prefiche quanto sia scomposto istituzionalmente, politicamente scorretto, umanamente deplorevole l’operato di Trump.

Una volta delineate le storture delle presidenze del tycoon, serve un salto di qualità nell’analisi, nella proposta, nell’elaborazione di un piano di azione europeo. Non è possibile cambiare Trump, deve cambiare l’Ue, se vuole giocare un ruolo politico di primo piano nel mutevole scacchiere internazionale.

L’egemonia americana è messa a repentaglio, la crescita economico-militare consente a Pechino di ampliare la sfera di influenza nel sud est asiatico e in Africa, la Russia scompiglia ulteriormente il fronte orientale e i “sud” del mondo premono demograficamente, economicamente e culturalmente sui pilastri ritenuti immodificabili dell’ordine scaturito dopo il 1945.

Crisi epocali

L’Unione europea affronta crisi epocali senza un’adeguata struttura istituzionale. È carente proprio sul versante statuale, mancando i crismi di un’unione federale e federalista. Le guerre in Ucraina e in Palestina hanno plasticamente esasperato la carenza europea in politica estera e di difesa.

Kaja Kallas emerge per non avere promosso alcunché, un grigiore diplomatico e politico che non accresce l’autorevolezza “esterna” di Bruxelles e fa rivivere i grami fasti di Catherine Ashton.

Il programma ReArm, ipocritamente rinominato Readiness 2030, calca l’andatura di politiche industriali nazionali senza uno straccio di visione sistemica e federale, mentre in diplomazia emerge il balbettio del parlamento e il silenzio tombale della presidente della Commissione. Sulla quale i democratici europei hanno mostrato eccessiva indulgenza nel rinnovarle la fiducia.

La Terza forza immaginata da Altiero Spinelli appare lontana: troppo radicata la torsione nazionale e manca una leadership in grado di andare oltre il Novecento. La riattivazione dell’asse franco-tedesco lascia uno spiraglio, ma bisognerebbe agire immediatamente su difesa comune federale, seggio europeo alle Nazioni unite, partiti realmente europei, riforme istituzionali, rinunciando alla consolante rassicurazione delle sirene degli stati nazionali.

Vasto programma, certo, ma senza queste riforme l’Ue perderà rilevanza, conculcata da forti venti nazionalisti. Che riemergono anche in politica interna e in economia con scelte non in grado di rispondere, ad esempio, alle sfide poste dai dazi statunitensi o dalla competizione dei prodotti cinesi.

Eppure, proprio l’economia e l’euro rappresentano uno dei punti di forza dell’Europa unita, insieme ai diritti, ma su cui rischia di perdere credibilità. Nata contro la guerra e per la pace, l’Europa è sfidata da nemici interni (Viktor Orbán, Giorgia Meloni, Marine Le Pen) e da un coacervo di forze esterne che ne minano le basi.

I nemici dell’Europa

La Russia e gli Stati Uniti d’America, con la meno palese, ma non meno perigliosa, ostilità della Cina, sono involontariamente, ma fattivamente allineati nell’indebolire l’Ue quale nemico per le interferenze nel campo della democrazia. Ambito distintivo e faro per i popoli oppressi che spesso manifestano issando i vessilli europei.

Eppure non bastano migliaia di bandiere sventolate in piazza anche tra le capitali del continente. Va bene l’orgoglio, va bene l’identificazione con i valori rappresentati in quelle dodici stelle, ma prima c’è bisogno di politica, di idee, di donne e uomini capaci di condurli in porto, di operare riforme profonde. Se l’Unione non lo fa, i problemi resteranno a prescindere da Trump, che funge da solvente che fa emergere le debolezze europee in politica estera, fiscale, industriale, di difesa.

Secondo Jean Monnet l’Europa cresce sulle crisi e si forgia con le risposte che opera per tentare di superarle. Trump è una grave crisi e una potente minaccia per l’Unione europea, ma il suo successo nel tentativo di scardinarla dipenderà interamente da Bruxelles, ossia dalla capacità di interrompere la sua inazione e incidere promuovendo un’agenda federale e federalista.

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