L’Esercito popolare di liberazione è pronto ad attuare un blocco economico contro Taiwan. Ne è convinto il governo di Taipei, secondo cui sarebbe questo il vero obiettivo dell’esercitazione intorno all’isola dell’8-10 aprile scorso (e di quella del 4-10 agosto 2022), al termine della quale l’Epl si è dichiarato in grado di «combattere in ogni momento per distruggere qualsiasi forma di “indipendenza di Taiwan” e i tentativi di interferenza straniera».

Il vice ministro degli esteri taiwanese, Roy Chun Lee, ritiene che le manovre di Pechino mirino, secondo l’insegnamento di Sun Zi, a «vincere la guerra senza combattere» e che «un blocco economico è certamente una delle possibili opzioni che la Cina sta considerando seriamente». Anche secondo il capo della Cia, William Burns, avendo studiato la reazione degli ucraini e la risposta statunitense ed europea all’invasione russa, «il presidente Xi Jinping e la sua leadership militare oggi dubitano di poter portare a termine la conquista» di Taiwan.

Intervistato la settimana scorsa da Bloomberg, Lee ha rivelato che il suo esecutivo sta collaborando con i paesi amici per prepararsi a rispondere proprio a un blocco economico che mirasse a impedire l’accesso a viveri, merci e materie prime. A Taipei stimano che le attuali riserve di gas naturale – tra le principali fonti energetiche dell’isola – basterebbero solo per undici giorni. Ma il vice capo della diplomazia ha rivendicato gli sforzi compiuti negli ultimi due anni dal Partito progressista democratico (Dpp) di Tsai per stoccare generi di prima necessità e minerali per la produzione di semiconduttori, di cui Taiwan è leader mondiale.

Come a Berlino nel 48-49?

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Taipei domani come Berlino nel 1948-1949, quando la parte occidentale della città tedesca occupata dalle truppe britanniche, francesi e statunitensi fu sigillata dai sovietici e poté sopravvivere per 462 giorni grazie al ponte aereo degli alleati?

In realtà il principale difetto dell’abusato paragone con la Guerra fredda è che non aiuta a capire l’attuale scontro tra gli Stati Uniti e la Cina, che non è l’Unione sovietica. Ad esempio, mentre nel 48-49 funzionari sovietici servivano nella struttura di contatto che permise l’atterraggio e il decollo dei velivoli dall’aeroporto di Tempelhof, è assai improbabile che Pechino permetterebbe l’arrivo di rifornimenti sull’altra sponda dello Stretto.

Non a caso, con le centinaia di sortite dei suoi caccia degli ultimi mesi, si sta preparando a un blocco aereo, oltre che navale. E alla vigilia dell’ultimo war game, incontrando a Pechino Ursula von der Leyen, Xi ha avvisato la presidente della Commissione Ue che «è una pia illusione che la Cina possa fare concessioni su Taiwan» e «chi se le aspetta si dà una zappa sui piedi».

Gli Stati Uniti avrebbero bisogno di un altro George Kennan, che riflettesse sulla natura della “condotta cinese”, ma oggi la loro diplomazia non dispone di “uomini saggi” come l’autore di The Source of Soviet Conduct, che ispirò la politica del containment.

Le mosse di Pechino vengono fraintese, i comandi militari cinesi e statunitensi non comunicano tra loro, e la politica di Washington è contraddittoria: promette di trasformare Taiwan in un “porcospino” armandola massicciamente, ma non abbandona ufficialmente la sua tradizionale “ambiguità strategica”, dice di rispettare l’accordo sottoscritto prima da Nixon e poi da Carter in base al quale esiste “una Cina”, ma di fatto tratta Taiwan da stato indipendente, lascia l’esplosiva questione taiwanese alla competizione politica tra democratici e repubblicani.

Xi rincorre l’ideologia

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Dall’altra parte, nella Nuova era di Xi Jinping già in due passaggi cruciali (la gestione della pandemia, il giro di vite contro le grandi compagnie private di internet) il partito comunista ha dimostrato di rincorrere l’ideologia, sottovalutando le conseguenze negative delle sue politiche.

Un blocco economico alla vigilia del voto del gennaio 2024 riuscirebbe a costringere gli elettori a voltare le spalle al Dpp, al potere da otto anni? Probabile che la risposta alla prova di forza di Pechino sarebbe piuttosto quella di dare fiducia ancora una volta al partito che non vuole alcun rapporto con i comunisti cinesi.

Sull’isola oltre la metà della popolazione appoggia la scelta di Tsai di legarsi in maniera sempre più stretta agli Stati Uniti. L’ultimo sondaggio della Taiwanese Public Opinion Foundation, condotto dopo la stretta di mano a Los Angeles tra Tsai e Kevin McCarthy, ha rilevato che il 61 per cento ha appoggiato l’incontro tra la presidente e lo speaker della Camera mentre era contrario solo il 21,8 per cento.

Tra i 25-44enni i favorevoli erano il 70 per cento. A differenza dei nazionalisti riparati sull’Isola a partire durante l’ultima fase della guerra civile (1947-1949) e dei loro discendenti, la gran parte dei successori di chi viveva nell’ex Formosa prima che scoppiasse il conflitto tra comunisti e nazionalisti si sente semplicemente taiwanese e non tollera alcuna influenza di Pechino. Si tratta dello zoccolo duro del Dpp, un problema (non da poco) con cui Pechino non riesce a fare in conti.

Droni sottomarini

Il vice ministro Lee ha sottolineato che «i blocchi economici possono facilmente degenerare in uno scontro militare non solo tra Taiwan e la Cina, ma anche tra la Cina e altri partner che stanno svolgendo molte attività commerciali con Taiwan».

Lo Stretto di Taiwan, i 160 chilometri di mare che dividono la Repubblica popolare cinese da Taiwan presto potrebbe diventare una polveriera. La marina taiwanese ha infatti appena informato il parlamento del progetto huìlóng (drago intelligente) che prevede il raddoppio (da quattro a otto) delle navi posamine veloci e la costruzione di droni sottomarini per localizzare e disinnescare gli ordigni piazzati dal nemico.

Un recente rapporto di Rhodium Group ha descritto come “immenso” l’impatto di un eventuale blocco economico, che provocherebbe subito perdite per l’economia globale per oltre 2.000 miliardi di dollari. Peserebbe anzitutto l’impossibilità di esportare i microchip, di cui Taiwan produce il 90 per cento di quelli più avanzati e circa la metà di quelli che vengono impiegati in tutti gli smartphone, le automobili e i computer sul mercato.

Secondo il centro di ricerca Usa «nel complesso le ripercussioni sociali ed economiche di una carenza di chip di tale portata sono incalcolabili, ma sarebbero probabilmente catastrofiche». Sarebbero colpiti anche i prestiti concessi alle aziende che hanno investito in Cina, con altre centinaia di miliardi (almeno 270) di danni. A tutto ciò andrebbe ad aggiungersi una fuga dalle azioni cinesi nelle borse Usa, nonché il blocco degli investimenti taiwanesi nella Repubblica popolare cinese e viceversa.

Il Pil dell’isola già soffre

L’economia taiwanese sta già subendo le prime ripercussioni di questo clima di cupa incertezza: la settimana scorsa il Fondo monetario internazionale ha abbassato la sua stima di crescita del Pil taiwanese per il 2023, dal 2,1 allo 0,7 per cento.

Negli ultimi tempi Gina Raimondo, segretaria al commercio degli Stati Uniti, è intervenuta più volte per mettere in guardia contro la dipendenza Usa dai microchip taiwanesi, che ha definito “pericolosa” e “insostenibile”. Grazie anche ai sussidi governativi del Science and Chips Act varato dall’amministrazione Biden nell’autunno scorso, Washington e i suoi alleati si sono mossi per ridurre al massimo questa dipendenza.

A Phoenix, in Arizona, Tsmc ha ultimato “Fab 21”, l’impianto nel quale, dal 2024, sfornerà chip con tecnologia a 4 nanometri, e sta costruendo un’altra fabbrica nella quale, dal 2026, partirà la produzione di chip a 3 nanometri (attualmente i più avanzati in commercio). La spesa complessiva della multinazionale taiwanese sarà di 40 miliardi di dollari, il maggiore investimento estero diretto mai realizzato negli Stati Uniti.

La Taiwan Semiconductor Manufacturing Company sta impiantando nella cittadina di Kikuyo la sua prima fonderia in Giappone, che dovrebbe avviare l’anno prossimo la produzione di semiconduttori a 12 e 16 nanometri. Secondo i media nipponici, Tsmc è pronta a investire 7,4 miliardi di dollari in un’altra fabbrica sull’arcipelago, dove sfornare dopo il 2025 microchip a 10 e 5 nanometri. La corsa per togliere il monopolio dei microchip a uno dei luoghi più caldi del pianeta prevede anche una tappa in Germania, dove Tsmc potrebbe presto concludere un accordo per costruire, in Sassonia, il suo primo impianto europeo.

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