L’Iran è tornato al centro delle cronache internazionali dopo lo scoppio di ingenti proteste che dalla metà di settembre si sono diffuse in oltre ottanta città del paese. Il motivo di quest’ultima sollevazione popolare è stato l’ennesimo atto di violenza di stato su una giovane donna, la ventiduenne Mahsa Amini, arrestata dalla Gashte ershad, la polizia religiosa (o morale), di Teheran con l’accusa di indossare il velo in modo “inappropriato”, ovvero non conforme alle più recenti restrizioni imposte dal governo.

Mahsa è morta tre giorni dopo il suo arresto, sotto custodia della polizia, con evidenti segni di violenza sul corpo. Nonostante le autorità abbiano sempre negato il loro coinvolgimento e le loro responsabilità nel decesso della giovane, una parte della popolazione iraniana, soprattutto giovani donne e studenti, è scesa in strada per criticare l’ultimo atto di abuso di potere del sistema politico. Da una forma di solidarietà espressa alla giovane donna curda, la protesta si è trasformata in un atto di accusa al sistema, ponendo al centro la condizione femminile.

Donne, vita, libertà

Lo slogan che ha caratterizzato tre settimane di proteste è stato quello di “zan, zendeghi, azadi” (donne, vita, libertà), perché proprio il riconoscimento dei diritti delle donne è stato il cardine delle rivendicazioni popolari, che hanno al tempo stesso incanalato un malcontento assai più ampio e diffuso su più livelli sociali e generazionali nella popolazione iraniana.

Attraverso forme di mobilitazione spontanea, ma ciclica, alcuni gruppi della società iraniana lamentano da tempo le difficili condizioni economiche, la precarietà nel lavoro, il carovita, ma anche la corruzione politica, le discriminazioni sulle minoranze etniche e l’incapacità delle élite di garantire un futuro ai tanti giovani che compongono oltre la metà della popolazione iraniana. Il malcontento di questi giorni, dunque, non deve sorprendere, ma ha radici molto profonde. 

Le immagini più emblematiche di queste proteste nazionali sono quelle di ragazze tra i diciotto e i venticinque anni che sfilano in strada togliendosi il velo, in alcuni casi bruciandolo. Sostenute e applaudite anche da uomini, le donne invocano lo smantellamento della polizia morale e la rimozione del velo obbligatorio.

Il velo, infatti, è diventato il simbolo della discriminazione sistematica del sistema verso le donne, della privazione dei loro diritti, e del controllo di stato sul corpo femminile, sia negli spazi pubblici ma anche in quelli virtuali. Si ricorderà, ad esempio, il caso di Maedeh Hojabri, diciottenne arrestata e costretta a una confessione forzata per aver caricato su Instagram un video in cui danzava. Oppure, il più recente caso di Sepideh Rashnoo, giovane scrittrice arrestata lo scorso luglio e poi costretta a una confessione pubblica sui canali della tv di stato per aver violato la legge che impone l’uso dell’hijab.

Restrizioni dei diritti

Per decenni, la legge che norma il codice di abbigliamento islamico ha generato (e lasciato impunite) intimidazioni, vessazioni e arresti arbitrari nei confronti delle donne bad hejabi, mal velate. Mentre le misure adottate dal sistema per “la promozione della virtù e la prevenzione del vizio” continuano a imporre e a controllare coercitivamente codici di abbigliamento che di fatto restringono le libertà individuali, si stima che la maggioranza delle donne rifiuti l’obbligatorietà del velo, un dato estremamente importante per comprendere la polarizzazione sul tema tra stato e società.

Già dalla fondazione della Repubblica islamica nel 1979, le donne iraniane hanno lamentato le progressive privazioni dei loro diritti individuali. Negli scorsi decenni, le attiviste hanno cercato di rendere maggiormente esplicite le proprie richieste di libertà e uguaglianza. La questione del velo, tuttavia, sembrava essere un tema in parte marginale rispetto alle limitazioni imposte dal discriminatorio diritto di famiglia che relega, di fatto, la donna a una posizione subalterna rispetto all’uomo. È con la tragica morte di Mahsa Amini che le donne, togliendosi il velo e sfidando a capo scoperto le forze di polizia, chiedono a gran voce la rimozione della sua obbligatorietà.

D’altro canto, la repressione violenta delle proteste per mano delle forze militari, ovvero membri delle Guardie della rivoluzione e basij, lancia un chiaro messaggio. La Repubblica islamica non è disposta a scendere a compromessi, né a mettere in discussione la questione del velo. Pertanto, al momento, le attuali proteste non sembrano indicare un epilogo indirizzato verso maggiori liberalizzazioni sociali.

Per comprendere la posizione del nezam (come viene chiamato il sistema politico), è opportuno sottolineare che il velo islamico è diventato centrale nella retorica della Repubblica iraniana fin dalla sua fondazione. L’ayatollah Khomeini ambiva a creare un modello di società islamica e nei primi mesi di vita del governo provvisorio, che era stato formato alla dipartita dello Shah Mohammad Reza Pahlavi nel gennaio del 1979, aveva indicato un codice di abbigliamento islamico (ovvero l’adozione del velo) per le donne che avrebbero ricoperto incarichi nel settore pubblico.

Nonostante una prima resistenza da parte delle donne iraniane che erano scese in strada per contestare questa iniziativa, l’hijab, o rusari come viene chiamato in Iran, diventa obbligatorio nel 1981 quando viene inserito nel codice penale all’interno del capitolo diciotto, quello che definisce le “offese alla morale pubblica”. L’articolo 638 sancisce quindi l’obbligatorietà del velo per le donne, aggiungendo anche una pena detentiva da dieci giorni a due mesi per le trasgreditrici.

Valore politico

In un contesto estremamente polarizzato come quello dell’Iran durante il primo biennio post rivoluzionario, l’idea di Khomeini ha assunto più i connotati di un’azione politica. L’imposizione del velo alle donne non era infatti legato a un principio religioso. Basti pensare, infatti, che altri paesi a maggioranza musulmana relegano la materia alla scelta individuale delle donne.

Nel caso iraniano, la neonata Repubblica aveva bisogno di definire le sue fondamenta ideologiche, affermare la sua legittimità e cristallizzare dei simboli a sostegno del suo progetto politico. Il velo diventa quindi parte integrante dell’identità politica della Repubblica, un elemento chiave delle sue basi ideologiche. Di conseguenza, da simbolo religioso, l’hijab ha assunto un valore politico, ed è stato utilizzato da una parte dall’élite – in particolare quella conservatrice e neo conservatrice – sia come strumento narrativo a sostegno delle sua legittimità, sia come strumento di controllo sulla popolazione. L’effetto collaterale di questa imposizione, tuttavia, è che la politicizzazione del velo ne ha snaturato l’aspetto spirituale. Come è emerso dalle attuali proteste, il rifiuto di indossare il velo non ha alcun riferimento religioso, ma sottende invece una critica più ampia al sistema politico che lo ha reso uno dei suoi simboli fondanti. 

Queste settimane di proteste hanno mostrato ancora una volta la brutalità di un sistema politico che fatica a riformarsi. Nonostante il cambio generazionale dell’élite al potere, le esigenze economiche che hanno spinto il paese a interloquire faticosamente con l’occidente e sebbene una popolazione giovane che non ha fatto esperienza della rivoluzione né si sente legata ai suoi lasciti ideologici, la Repubblica islamica dell’Iran continua a ricorrere ai suoi elementi fondativi per affermare la propria autorità, e a imporre quei simboli su cui ha costruito la sua identità politica, e quindi esistenza. Mettere in dubbio questi aspetti avrebbe un effetto deleterio, secondo parte dell’establishment iraniana, sulla stabilità del sistema, non solo per un aspetto puramente ideologico, ma soprattutto perché verrebbe meno uno tra gli strumenti coercitivi utilizzati per avere il controllo e la presa sulla società.

Chissà se non siano proprio questa intransigenza e l’incapacità di rinnovamento e di dialogo con una parte dinamica e giovane della popolazione a minacciare, invece, la legittimità della Repubblica islamica dell’Iran.

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