Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha avuto ieri una conversazione telefonica con il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky. Il colloquio si è focalizzato sugli ultimi sviluppi della situazione sul campo, con particolare riguardo alle regioni orientali del paese.

Il presidente ha assicurato il sostegno del governo italiano all’Ucraina in coordinamento con la Ue. I due presidenti hanno inoltre discusso delle prospettive di sblocco delle esportazioni di grano dall’Ucraina per far fronte alla crisi alimentare che minaccia i paesi più poveri del mondo.

Zelensky ha espresso apprezzamento per l’impegno del governo italiano e ha concordato con Draghi di continuare a confrontarsi sulle possibili soluzioni.

Roma al centro?

Ma cosa sta succedendo a Roma, tornata ad essere il centro della diplomazia europea sull’Ucraina? Per capirne di più dobbiamo fare un passo indietro.

Il premier Draghi, dopo la visita a Washington e la telefonata con Vladimir Putin, sta cercando una sua personale postura nei confronti di Mosca e Kiev per rilanciare il negoziato e giungere a un accordo sull’export di grano ucraino, così da evitare nuove carestie in Africa e in alcuni paesi asiatici come lo Sri Lanka, già in default per 50 miliardi di dollari di debito.

Una politica dei piccoli passi e dei negoziati limitati a dossier precisi, come la questione alimentare e lo sblocco dei porti ucraini nel Mar Nero, per mantenere aperto il canale diplomatico di comunicazione soprattutto con il Cremlino.

Il tutto proprio mentre gli Stati Uniti, secondo la Cnn, si stanno preparando ad inviare a Kiev missili a lungo raggio e il dipartimento di Stato americano è sempre più deciso a costringere Mosca al default “indotto” con il blocco degli intermediari bancari americani, anche se la Russia avrebbe i fondi, in rubli, per pagare le scadenze grazie agli introiti da forniture energetiche.

Sembrerebbe allora la classica divisione tra poliziotto buono (Draghi) e quello cattivo (Biden) per costringere Putin a cercare una soluzione al conflitto prima che la situazione degeneri e i falchi, nei rispettivi schieramenti, prendano il sopravvento.

La pista americana

La matassa diplomatica a tre mesi dall’inizio del conflitto è intricata. Draghi, dopo un iniziale atteggiamento di basso profilo dove ha lasciato il palcoscenico a Emmanuel Macron e Olaf Scholz, entrambi volati a Mosca per incontrare Putin senza costrutto, è a sua volta andato Washington per incontrare il presidente americano, Joe Biden.

Draghi, nello Studio Ovale, ha parlato di sanzioni economiche e di rilancio dell’offensiva diplomatica.

Nella prima visita ufficiale bilaterale di Draghi negli Stati Uniti il clima era disteso, tra vecchi amici con cui si possono esprimere le perplessità e le diverse visioni senza timore di essere fraintesi.

Il premier italiano avrebbe fatto presente le difficoltà di uscire da una rete di forte dipendenza energetica da Mosca e dell’esigenza, condivisa da diverse capitali europee, tra cui Berlino, di rilanciare un negoziato mai davvero partito.

Il presidente del Consiglio ha rassicurato Biden su atlantismo ed europeismo dell’Italia, chiedendo maggiore gradualità sul fronte delle sanzioni energetiche e sull’uso dei rubli per pagare le forniture. Senza dimenticare di proseguire con la diplomazia per dare nuovo slancio ai negoziati di pace.

L’Italia è, con la Germania, tra i paesi europei più dipendenti da Mosca per la fornitura di gas e petrolio, ma l’esecutivo di Roma ha cercato di ridurre questa dipendenza con trattative in Africa e medio oriente.

Draghi ha perorato la proposta di mettere un tetto al prezzo del gas, ipotesi che non piace affatto a olandesi e norvegesi, che da questa situazione anomala di mercato traggono enormi extra profitti.

La pista europea

In una fase dove il presidente francese Macron è attento ad evitare l’ipotesi di una coabitazione in vista delle prossime elezioni legislative di giugno, e Scholz deve ancora entrare nei panni del successore di Angela Merkel, Draghi ha preso in mano il filo della trattiva con Putin alla sua maniera: con realismo e cercando di concentrarsi su obiettivi limitati.

Accanto all’ipotesi che vede nella svolta nei rapporti con l’amico americano o nel passaggio di testimone dal duo franco-tedesco al protagonismo di Roma, c’è anche la pista interna di una scelta dettata per venire incontro alle esigenze di una maggioranza di governo dove le pulsioni pacifiste e di rilancio del negoziato si sono fatte sempre più forti.

Il famoso piano di pace consegnato da Luigi Di Maio al segretario generale dell’Onu e mai davvero considerato dai belligeranti (il Cremlino lo ha ridicolizzato dopo averlo appreso dai media) può essere letto anche come «un piano di politica interna non di politica estera», come ha scritto Marta Dassù, già viceministro degli Esteri.

Ed è significativo che proprio nelle stesse ore Matteo Salvini annunci che il suo viaggio in Russia «è imminente». Il leader della Lega potrebbe arrivare a Mosca già nelle prossime ore.

In questo quadro potrebbe essere nata l’esigenza di telefonare a Putin. Anche se alla domanda sulla possibilità di una strada verso la pace, il premier ha risposto: «Se ho visto degli spiragli per la pace? La risposta è no».

Ma dopo la doccia fredda, Draghi ha spiegato: «È un tentativo che mi sono sentito di fare, senza alcuna certezza che possa andare a buon termine».

È possibile che Draghi, al prossimo Consiglio europeo di lunedì, informerà i paesi del colloquio con Putin sulla crisi del grano. Ecco allora che l’iniziativa parte da una ritrovata autonomia da Washington, raccoglie le esigenze di aprire il negoziato delle forze politiche interne ma trova a Bruxelles la camera di compensazione per delineare una posizione europea.

«Putin ritiene che la colpa» della crisi alimentare «sia delle sanzioni, perché senza le sanzioni la Russia potrebbe esportare il grano» ha detto il premier.

«Ovviamente le sanzioni sono lì perché la Russia ha attaccato l’Ucraina», ha aggiunto sottolineando che durante la telefonata avuta con l’inquilino del Cremlino «ha parlato quasi solo lui sul piano generale. Per me era importante vedere se si poteva sbloccare la questione del grano bloccato nei porti».

Ovvero riportare con tenacia Mosca sui binari del negoziato sul grano, lasciando le sfere di influenza e i sogni imperiali al dibattito degli storici. E nello stesso tempo telefonare a Zelensky e chiedere di aprire i porti. Primi passi su un terreno di apertura del trasporto marittimo del grano per uscire dall’impasse negoziale.

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