Rivoltati come calzini con la campagna di Xi Jinping contro la «espansione disordinata del capitale» che ne ha riorientato la mission, per Alibaba e gli altri colossi cinesi di internet, dopo due anni e mezzo di purgatorio, è arrivata infine la riabilitazione.

I dati pubblicati lunedì dall’Ufficio nazionale di statistica (Nbs) hanno registrato nel secondo trimestre 2023 un incremento del prodotto interno lordo del 6,3 per cento, rispetto all’esangue +0,4 per cento di aprile-giugno 2022. Paragonata a gennaio-marzo 2023, la crescita è stata dello 0,8 per cento.

In ogni caso troppo poco per un paese che ha tuttora 600 milioni di poveri, anche se non li chiama più col loro nome. Ma ora la leadership del partito comunista scommette proprio sui suoi giganti (privati) del web per spingere un’economia che sembra aver perso slancio, e sconfiggere grazie alla “innovazione autoctona” l’embargo hi-tech decretato dagli Stati Uniti.

Le ultime sei mega-multe la Banca centrale le ha annunciate una settimana fa. Tra le aziende colpite, i due operatori del mercato di pagamenti elettronici più grande del mondo: 1 miliardo di dollari ad Ant Group (Alibaba), la metà a Tencent, per reati che vanno dalla violazione delle regole di diritto societario a quelle sulla tutela della privacy, al riciclaggio.

Lo stesso 7 luglio, il premier cinese, Li Qiang, ha incontrato gli amministratori delegati di 14 big della rete, ai quali ha promesso di «stare al passo con le difficoltà e le preoccupazioni aziendali, migliorare le politiche pertinenti e favorire uno sviluppo sostenibile dell’economia delle piattaforme in linea con le normative».

Supervisione

Si chiude così la fase iniziata a fine 2020, quando - con l’obiettivo di spezzare monopoli, mettere i big data sotto la supervisione governativa e allineare l’intero cyberspazio nazionale all’ideologia del partito comunista - la sua leadership esplose una raffica d’iniziative clamorose che hanno finito per contribuire a minare la fiducia del mercato: dallo stop all’ultimo minuto alla quotazione in borsa con la quale Ant Group, nel novembre di quell’anno, avrebbe raccolto 34 miliardi di dollari, alla sanzione da 2,8 miliardi di dollari ad Alibaba (l’Amazon cinese) nell’aprile 2021.

Dalla scorsa settimana, anche le borse cinesi hanno festeggiato questa svolta annunciata, che si è già tradotta nel passaggio dallo shock per le inedite perdite del 2022, al ritorno quest’anno a ricchi profitti: 7,9 miliardi di dollari tra gennaio e maggio (+43 per cento, contro il -14,8 per cento dello stesso periodo del 2022).

Dopo aver licenziato decine di migliaia di dipendenti negli ultimi due anni, Alibaba, Tencent e le altre ricominceranno ad assumere? Intanto, il mese scorso nelle grandi città i disoccupati nella fascia d’età 16-24 anni hanno segnato l’ennesimo record negativo, con il 21,3 per cento (20,8 per cento a maggio).

Giovani che, prima della stretta voluta da Xi, usciti dalla scuola o dall’università, male che andava diventavano colletti bianchi alle dipendenze di Jack Ma o Pony Ma. I cui tagli sono stati riassorbiti solo in parte dalle compagnie di stato.

Dato il loro volume d’affari (oltre il 40 per cento del Pil cinese nel 2022) il giro di vite contro le big di internet ha avuto ripercussioni su tutte le aziende. Ora però è di nuovo a loro che ci si affida, poiché queste compagnie hanno un know-how di inestimabile valore, e dopo che sono state istruite a fare meno finanza e a concentrarsi su ricerca e sviluppo.

A investire è lo stato

A pesare su una crescita che gli analisti cinesi concordano a definire “incostante” sono, oltre alla debole domanda dall’estero, quella interna, soprattutto a causa della crisi del mattone, il 30 per cento circa dell’economia (nel primo semestre di quest’anno, gli investimenti immobiliari sono calati del 7,9 per cento; secondo Reuters, del 20,6 per cento a giugno, su base annua) e, appunto, della sfiducia del settore privato.

Così come il Pil, nel secondo trimestre anche le vendite al dettaglio (+3,1 per cento il mese scorso) sono aumentate meno delle aspettative, mentre gli investimenti in capitale fisso hanno subìto un rallentamento, dal 4 per cento nel periodo gennaio-maggio, al 3,8 per cento nel primo semestre.

Nei primi sei mesi di quest’anno, quelli del settore privato sono diminuiti dello 0,2 per cento, in stridente contrasto con il +8,1 di quelli delle aziende di stato. Il mercato immobiliare, che rappresenta un terzo del Pil, non dà segnali di riscossa: a maggio nelle città di “primo livello” i prezzi dei nuovi appartamenti sono cresciuti dello +0,1 per cento rispetto al mese precedente.

L’insieme di questi dati conferma che, come ammettono anche Pechino, una vera e propria ripresa post-Covid non è ancora cominciata. Il pericolo più concreto al momento si chiama “stagflazione”: bassa crescita e contemporanea diminuzione dei prezzi (la domanda di carne di maiale a giugno è diminuita del 7,2 per cento su base annua), che rischia di minare ulteriormente la fiducia del settore privato e ingrossare le masse di senza lavoro.

Gli occhi di imprenditori, investitori e analisti sono puntati sull’Ufficio politico (la leadership allargata del partito comunista, 24 membri) che per questo mese ha in agenda una riunione incentrata proprio sulle misure economiche.

Il mercato spera in un aumento considerevole della spesa e degli investimenti in opere infrastrutturali, uno stimolo vero e proprio. Il governo però – tutti i segnali vanno in questa direzione – con ogni probabilità si manterrà prudente, limitandosi a un’ulteriore riduzione dei tassi d’interesse e di riserva obbligatorio delle banche, per non rischiare di alimentare gli squilibri (a partire dal debito e dalla fragilità del settore immobiliare), e si accontenterà di un anno di transizione, centrando l’obiettivo dichiarato a marzo dal premier Li di “circa il 5 per cento” di crescita per il 2023, che il Pil del primo semestre (+5,5 per cento) conferma a portata di mano.
 

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