Ogni volta che Joudah torna a casa la sera, per sua madre è una sorta di miracolo. «Vivo con la paura che un giorno mi dicano che mio figlio è stato accoltellato o spinto sotto un treno o picchiato a sangue o arrestato dalla polizia perché è omosessuale», racconta in lacrime.

Il velo copre il capo di questa donna che non vuole rendere pubblico il suo nome. Siamo in Tunisia, nella periferia di Sousse, una città costiera a 150 chilometri dalla capitale Tunisi. Qualche raggio di sole filtra nel cortile interno tipico di queste case.

Qui Joudah ha scoperto la sua identità di genere e ha deciso di portare questa consapevolezza oltre quelle mura. Ha scelto di lottare per i diritti della sua generazione nonostante i rischi, tanti, che comporta la manifestazione pubblica della propria omosessualità in Tunisia.

«Per anni quando andavo a dormire pregavo di risvegliarmi donna – racconta – oggi ho deciso di non nascondermi più, perché il mio desiderio di esistere così come sono, è più forte della paura».

Un cambiamento difficile

Judah (foto Chiara D'Ambros)
Judah (foto Chiara D'Ambros)

Nel Maghreb, nemmeno le primavere arabe, che nel 2011 hanno portato un forte vento di cambiamento in tutta l’area, sono riuscite a smantellare le leggi che risalgono al periodo coloniale e che criminalizzano l’omosessualità. Secondo Abdellah Taia queste leggi non sono una questione sociale. «È la politica che vuole continuare a mantenere in vigore leggi che prima dell’arrivo degli occidentali non esistevano. Non è una questione di tradizioni».
Taia è uno scrittore marocchino gay che ha subìto in prima persona la discriminazione e la violenza nel suo paese prima di emigrare in Francia.
«Se non fossi diventato uno scrittore non avrei mai avuto il coraggio di dire che sono omosessuale», racconta. Oggi Taia è uno dei più importanti esponenti della comunità Lgbtq+ nel mondo arabo e combatte ogni giorno perché tutti possano vivere la propria sessualità liberamente.
Sul terreno però c’è ancora tanto da fare. In Tunisia gli attivisti della causa Lgbtq+ temono una nuova deriva autoritaria. Le posizioni del Presidente Kais Saied rispetto all’omosessualità sono chiare: «Chi è che accetta che qualcuno chieda la mano di suo figlio maschio? – ha dichiarato un anno fa – Arriveremo a questo punto in Tunisia? Questo caso riguarda i valori dentro la società, loro sono liberi in altre società, però la cultura e la dimensione universale dei diritti dell’uomo deve prendere in considerazione i valori della società».

La repressione

Proprio in questi giorni Saied ha presentato il testo di una nuova Costituzione che andrebbe a sostituire quella del 2014 e verrà votata attraverso un referendum il prossimo 25 luglio, ad un anno esatto da quando ha chiuso il parlamento e iniziato il processo di accentramento del potere, che trova coronamento in questa nuova carta costituzionale che di fatto gli assegna pieni poteri.

La domanda che oggi tutti si pongono è: prevarrà la sua spinta conservatrice?

Già oggi, nonostante sia considerato il paese maghrebino più moderato, anche la Tunisia, come tutti gli altri paesi di quest’aerea, vieta per legge l’omosessualità. Secondo l’articolo 230 del codice penale sono previsti tre anni di reclusione per chi viene identificato come persona Lgbtq+ e viene punito qualsiasi atto che viene percepito come contrario alla moralità e alla decenza.

La polizia ti può fermare per strada e arrestare per come cammini o come ti vesti, se sei un uomo e sei truccato o hai un orecchino. Un giudice ti può condannare.

Come racconta Fatma un’intervistata dell’associazione Damj, una delle principali associazioni che si battono per i diritti civili in Tunisia, nel 2021 a seguito di alcune manifestazioni di piazza contro l’accentramento di potere dell’attuale presidente Kais Saied, in cui qualcuno ha osato portare una bandiera arcobaleno, i sindacati della polizia hanno lanciato un hashtag: «Tu che porti gli orecchini sei un bastardo, ti stiamo osservando».

Le torture in carcere

Secondo l’associazione Damj, dal 2011 al 2020 sono state 2.699 le incarcerazioni riconducibili all’articolo 230 del codice penale.
La condizione nelle carceri tunisine è drammatica per chiunque. Per le persone omosessuali in particolare, può essere atroce.

Nel carcere di «Mornaghia», a Tunisi, c’è una camera per le persone Lgbtq+, la chiamano «camera dei leoni». Racconta Saif, un altro membro dell’associazione Damj, che le autorità sostengono sia una stanza dedicata, per la loro protezione, invece è un luogo dell’orrore.

Bastonate, calci, violenze di ogni tipo anche per mano dei medici del carcere. «Ci hanno arrestati e portati dal medico – racconta Nikita, una trans intervistata a Tunisi – ha messo i guanti e ci ha chiesto di piegarci come se stessimo pregando. Poi ci fa fatto l’ispezione anale mentre i poliziotti guardavano».
L’ispezione anale è un esame privo di fondamento scientifico, che nel 2014 è stata dichiarata “pratica di tortura” dalla commissione internazionale per i diritti dell’uomo.
Poi c’è la rasatura dei capelli delle transessuali donne, che entrano in carcere con capelli lunghi fino alla schiena e ne escono rapati a zero.

Invisibili

Non che fuori dal carcere le cose vadano meglio. Badr Baabou presidente di Damj, racconta di essere stato picchiato brutalmente da due poliziotti in uniforme in una sera di ottobre del 2021, in una strada non lontana dal corso principale di Tunisi.

Gli attacchi alle persone Lgbtq+ possono venire da più fronti. Uno di questi è l’integralismo religioso come è successo a un giovane ragazzo gay che è stato accoltellato da un salafita e per paura che succeda di nuovo è scappato in Francia.

In molti tentano di fuggire da questa condizione, in cui sei considerato un criminale semplicemente per come sei, perché esisti ma è difficile ottenere protezione all’estero. Chi non ci riesce a volte tenta la via clandestina del mare, altri si tolgono la vita.

Non ci sono statistiche ufficiali dei suicidi dovuti a questo motivo ma alle associazioni arrivano ogni giorno centinaia di richieste di aiuto. «C’è molta resistenza rispetto alle rivendicazioni della comunità Lgbtq+, ovunque – prosegue Taia –. La questione Lgbtq+ non è mai una priorità. Lo diventa solo se la comunità si rende visibile e troppo spesso in questi casi viene attaccata, piuttosto che ascoltata. Succede nel Maghreb e succede ancora oggi, anche in occidente».


Il reportage completo andrà in onda su Rai3, lunedì 18 luglio alle 23.15 nella puntata del programma Il Fattore Umano, dal titolo “Non è un paese per gay”. Il Fattore Umano è il programma di Rai3 che fa da fact-checking per monitorare quanto i diritti umani siano realmente rispettati nel mondo.

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