Ci si avvicina nell’indifferenza generale al terzo mese di conflitto in Sudan. Quella che si pensava una guerra lampo, quando scoppiò il 15 aprile scorso, non sembra dar segni di cedimento mentre le ormai innumerevoli tregue firmate dalle due fazioni in lotta e patrocinate da Usa e Arabia Saudita, sponsor dei negoziati a Gedda, sono state caratterizzate molto più da infrazioni che da rispetto dei cessate il fuoco.

Nel frattempo, la popolazione, precipitata in un incubo a una passo dalla realizzazione di un sogno (i colloqui tra esercito protagonista del golpe dell’ottobre 2021 e movimenti politici della società civile avevano condotto a una roadmap per la costituzione di un governo composto da soli civili per la prima volta nella storia), e in gran parte abbondonata dalla comunità internazionale, se può cerca rifugio all’estero o in zone del paese meno violente. Oppure resta dando prova di resilienza in uno stato di guerra ormai permanente.

La società civile resiste compatta e risoluta e vede in questa fase una tappa di un processo rivoluzionario irreversibile.

Per capire come sta reagendo, qual è la vita quotidiana dei sudanesi travolti dal conflitto, dei bambini traumatizzati, delle donne e come si stanno organizzando le reti locali, Domani ha raggiunto al telefono Duaa Tariq, curatrice artistica e attivista.

«Io vivo a East Jeraif, nella zona orientale di Khartoum, non lontano dal quartier generale dell’esercito, in un’area quasi interamente occupata dalla Rsf (Rapid Support Forces, la milizia fedele a Mohammed Hamdan Dagalo, che si oppone all’esercito, ndr).

Il quartiere è diviso in due parti, una abitata da cittadini di classe medio-alta che avendo le possibilità economiche sono fuggiti, un’altra dove vive gente più povera che non saprebbe dove andare.

In entrambe le zone le Rsf hanno pianificato un’operazione di saccheggio di case, autoveicoli e beni. Nei quattro appartamenti vicini al mio, ci vivono soldati delle Rsf».

Come si sta organizzando la società civile per sostenere la popolazione?

In ogni locality (una specie di municipi, presenti in tutto il paese, ndr) sono attive le Emergency response room, organizzazioni locali su base volontaria istaurate nel 2020 dai Comitati di resistenza. Queste unità ricevono donazioni nazionali e internazionali e gestiscono gli aiuti.

Qui da noi abbiamo una mensa che dà da magiare a 150 famiglie al giorno, un centro per il sostegno ai bambini traumatizzati con attività artistiche e ascolto (il centro sta raccogliendo le testimonianze dei bambini, ndr).

Quando ci sono guasti o problemi all’elettricità o al sistema idraulico, abbiamo volontari che provvedono. Inoltre abbiamo un coordinamento che si occupa di raccogliere medicine nelle poche farmacie rimaste aperte o quando ci arrivano donazioni.

La guerra sta aumentando di intensità e pericolosità, ha già fatto migliaia di morti, feriti e provocato la fuga di oltre 650mila persone, lei e molti altri avete scelto di restare, perché?

Siamo coinvolti in un processo rivoluzionario e restiamo qui con piacere. Siamo una presenza solida fin dal 2018 e abbiamo dato il via a un processo irreversibile (le rivolte dei gruppi della società civile innescarono fin dal 2018 un movimento di popolo che condusse alla sorprendente cacciata di Omar al Bashir nell’aprile 2019, uno dei peggiori dittatori della storia contemporanea, ndr).

Per noi la guerra è un episodio, per quanto dolorosissimo, nel percorso della nostra rivoluzione, è importante ribadirlo perché c’è il rischio di pensare che la guerra abbia fermato il processo. Tanti cercano di stare qui per salvare la rivoluzione, alla base della guerra c’è proprio la volontà di fermarla, sull’esercito e le forze armate la pressione viene dalla rivoluzione, dalle strada.

Cosa pensa debba succedere per fermare I combattimenti e aprire un vero negoziato?

Noi pensiamo che la comunità internazionale debba giocare un ruolo nel negoziare il cessate il fuoco e in questo senso apprezziamo gli sforzi di Gedda ma la soluzione al conflitto la possono trovare solo i sudanesi. Deve essere innescata una conversazione tra forze della società civile sudanese (fin qui escluse dai colloqui, ndr).

Crediamo che le Rsf vadano smantellate e che l’esercito debba rientrare nelle caserme. Non possiamo più accettare di sedere a tavoli organizzati su principi colonialisti, è arrivato il momento di dire basta a interferenze caratterizzate da un approccio ancora di stampo coloniale, va bene Gedda, ma poi tocca a noi.

I responsabili di varie agenzie Onu hanno espresso sconcerto di recente per i crescenti casi di violenza di genere in Sudan, tra cui violenze sessuali legate al conflitto.

L’Ufficio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite in Sudan ha ricevuto notizie attendibili di decine e decine di episodi di violenza mentre l’Unità per Combattere le Violenza contro le Donne del ministero dello Sviluppo sociale del Sudan continua a ricevere notizie di violenza sessuale. Si parla di un centinaio di donne ma, ovviamente, il numero è ampiamente sottostimato.

Qual è la situazione?

Le violenze purtroppo si ripetono con sempre maggiore frequenza.

Sappiamo di membri delle Rsf che attaccano case con donne per abusarne e la paura si sta diffondendo. Io stessa, con una collega stavo andando alla mensa e siamo state aggredite da soldati, ci siamo dovute nascondere.

Purtroppo, per donne abusate non c’è assistenza adeguata anche perché ospedali e centri sanitari sono ormai quasi tutti chiusi. Molte famiglie sono alla fame perché l’unico guadagno veniva da donne che vendevano al mercato e ora hanno paura a uscire. Il momento è drammatico e ci vorrà tempo, ma ho la sensazione che il popolo stia prendendo coscienza e ciò proprio grazie a questa mobilitazione che ha reso consapevole la nostra comunità di cosa significhi avere una rete sociale di supporto.

Stiamo dando concretezza a forme di autogoverno locale, di potere al popolo e quando arriverà il cessate il fuoco, dimostreremo di essere pronti.
 

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