Se Donald Trump ha un erede, di sicuro non è uno dei suoi figli. Non il figlio Don Jr., troppo impulsivo e prono a violente prese di posizione, come quando disse che per «fermare il furto» delle elezioni era pronto alla guerra totale.

Né tantomeno Ivanka, percepita come troppo globalista e radical chic dalla base repubblicana. Il suo erede lo ha scoperto durante un volo sull’Airforce One verso Pensacola, in Florida, nel dicembre 2017.

All’epoca era un deputato al Congresso poco famoso, di origini italoamericane, Ron DeSantis, classe 1978, veterano dell’Iraq e laureato in legge ad Harvard. Certo, al Congresso si era distinto per le sue posizioni conservatrici: eletto nel 2012, l’anno successivo ha firmato il patto proposto dall’organizzazione Americans for Prosperity, finanziata dai fratelli Koch, nel quale gli aderenti promettevano di non alzare le tasse per nessun motivo legato al cambiamento climatico.

Non solo: ha fondato il Freedom Caucus, la nuova incarnazione congressuale di quello che fu il gruppo del Tea Party, stavolta riunito sotto l’egida del nuovo leader Trump. Anche per quello, in quel dicembre 2017, è arrivata la promessa di sostegno per la sua corsa a diventare governatore della Florida, dove ha sconfitto alle primarie il favorito della vigilia, il commissario all’agricoltura Adam Putnam, sostenuto dall’establishment repubblicano statale.

Ma all’inizio del 2018 la figura di Trump tra i repubblicani era una sorta di jolly invincibile, inattaccabile. A novembre di quell’anno ha battuto di misura il sindaco democratico di Tallahassee Andrew Gillum, un progressista sostenuto da Bernie Sanders.

E proprio in quella circostanza si è evidenziata la debolezza di un messaggio che conteneva troppo la parola socialismo, evocativa del regime castrista così inviso a tanti esuli cubani che magari in altre circostanze hanno sostenuto candidati democratici moderati come l’ex senatore Bill Nelson o la commissaria all’agricoltura Nikki Fried, possibile avversaria di DeSantis nel 2022.

Il “regime di Ron”

Proprio lei ha coniato un’espressione dedicata all’agenda di governo della Florida in questi ultimi anni, il “regime di Ron”. E del resto non si può dire che avesse nascosto le sue intenzioni.

Già in un video apparentemente innocuo della sua campagna elettorale, la moglie Casey lo annunciava mentre costruiva un muro di cubi di gomma con sua figlia Madison, poi leggeva the Art of Deal al figlio Mason e infine insegnava le parole Make America Great Again alla primogenita, non temendo quindi di strumentalizzare la sua famiglia in modo sfacciato e diretto.

Il suo governo è stata la realizzazione del sogno trumpiano, a cominciare dall’immigrazione: ha chiesto agli sceriffi di collaborare alle restrizioni sull’immigrazione illegale e ha firmato una legge nel giugno 2019 per proibire le cosiddette “città santuario”, anche se in Florida non esistono. Ma meglio prevenire la possibilità.

Così come nel cambiare i giudici della Corte suprema statale: tre nuovi giudici conservatori sono stati nominati nelle sue prime settimane in carica.

Durante la pandemia è stato un paladino della totale libertà. Non ha mai implementato l’obbligo di indossare la mascherina all’esterno e ha imposto un solo lockdown nella primavera  del 2020.

Nell’autunno del 2020 ha anche proibito alle città e alle contee di imporre obblighi sulla capienza dei locali pubblici. E nell’agosto precedente, dopo aver strappato con successo la convention repubblicana al governatore democratico del North Carolina Roy Cooper, si è trovato pubblicamente rigettato dallo stesso Donald Trump, che ha preferito annullare l’evento in presenza a Jacksonville.

Ma la ciliegina sulla torta l’ha messa nel febbraio di quest’anno: qualora un governo locale lo avesse criticato sulla distribuzione dei vaccini, avrebbe potuto non mandarne nessuno. E questo non gli ha impedito di strizzare l’occhio ai No-vax, opponendosi all’applicazione dei passaporti vaccinali nello stato, finendo in conflitto con le compagnie crocieristiche. Pazienza.

Linea trumpista

Dopo le elezioni presidenziali del 2020, ovviamente, ha sposato completamente la linea trumpista di tentare di ribaltare il risultato delle elezioni. E del resto la sua Florida era andata convintamente nel colonnino repubblicano, dopo aver incollato al ticket democratico l’etichetta di “socialista” così invisa alla comunità degli esuli.

E quindi ecco una legge che restringe il voto per posta, che viene usato molto da quegli anziani liberal che vengono a passare i loro ultimi anni nel Sunshine State. Questa però sarebbe una legge da repubblicani standard, aa trumpiani tiepidi, mentre DeSantis è molto di più.

Vuole carne fresca per spiccare sulla massa di un partito che cerca in tutti i modi il favore del leader esule nel complesso di Mar-a-Lago, nella sua Florida. Così ha presentato due unicum: una legge contro le proteste, che riduce la pena per chi aggredisce un manifestante durante “una rivolta”, echeggiando quanto accaduto in modo doloso a Charlottesville nel 2017, quando una manifestante appartenente all’alt-right aveva investito alcuni attivisti di Black lives matter.

Il massimo del trumpismo però è la legge che impedisce alle aziende del Big Tech di implementare la “censura” che, secondo DeSantis e anche buona parte dei commentatori repubblicani, colpisce i conservatori.

Il futuro

È il curriculum di un vero combattente che, alla riunione del Cpac di fine febbraio scorso, ha mostrato di essere la seconda scelta della base trumpiana, tanto che lo stesso Trump gli avrebbe promesso il posto di vicepresidente nel 2024.

Ma l’ex presidente ignora che DeSantis è, potenzialmente, un candidato più pericoloso di lui: propone le stesse idee, ma non ha le sue asperità caratteriali né tantomeno le sue pendenze giudiziare.

E in più è un veterano, relativamente giovane con i suoi 42 anni. Ma avrà il coraggio di emanciparsi dal suo mentore e modello? I precedenti fin qui fanno presagire di no, ma che cosa accadrebbe qualora Trump, magari su consiglio dei suoi legali, si facesse da parte dando l’endorsement al suo pupillo?

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