I colloqui tra Stati Uniti e Russia, cioè i colloqui senza l’Europa, prendono il via a Ginevra mentre Mosca aumenta il carico della propria presenza: in Svizzera in queste ore si parla di Ucraina, ma intanto anche in Kazakistan Vladimir Putin si allarga.

L’Europa a margine

La città svizzera è il campo neutro dove le grandi potenze si incontrano. Nel 1985, ha tenuto insieme per la prima volta Ronald Reagan e Michail Gorbaciov. A giugno, Vladimir Putin e Joe Biden. Ginevra è per molti la capitale della pace, ma certo non è la capitale dei miracoli. E infatti per l’occidente questi colloqui, che tengono insieme funzionari statunitensi e russi, cominciano all’insegna della debolezza. L’Ue semplicemente non c’è. In questo Putin ha già vinto: ha imposto di avere al tavolo un interlocutore solo, cioè gli Usa, ed è riuscito a mettere ai margini gli europei. Eppure l’Ucraina, sia dal punto di vista geografico che degli interessi, per la partita del gas per esempio, influenza più direttamente l’Ue che Washington. I temi al centro delle discussioni, cioè i rischi di interventi militari russi nell’area e l’adesione o meno dell’Ucraina alla Nato, toccano l’Europa. Che però deve affidarsi agli Usa.

Una condizione che Putin è riuscito a imporre. «Se discutiamo anche con altri paesi ci si perde nel chiacchiericcio», è la motivazione data dal viceministro degli Esteri, Sergej Ryabkov. Ci sarà lui oggi ai bilaterali, con la vicesegretaria di stato Usa Wendy Sherman. La Russia può far leva sulla debolezza europea: divisioni e divergenza di posizioni. Nella Ue c’è chi tiene di fatto una linea pragmatica, come la Germania di Nord Stream 2, e chi invece chiede posizionamenti rigidi, come la Polonia e altri paesi a Est che temono le ingerenze di Mosca. Così l’alto rappresentante Ue rimbrotta – «Non possiamo rimanere spettatori», ha detto Josep Borrell, che infatti è andato a passare la sua epifania in Ucraina – mentre Parigi e Berlino dialogano per loro vie. «Prevediamo sanzioni che prevedano anche il gas? Abbiamo le capacità di farlo? È il momento giusto? La risposta è no», ha detto prima di Natale Mario Draghi conclamando così l’inerzia europea. Ci si affida al parrainage di Washington, che nella stagione del disimpegno e del focus su Pechino, abbozza. L’Ucraina stessa è esclusa dai due terzi di sessioni negoziali della settimana.

Una Russia ingombrante

Intanto Mosca si allarga, e c’è uno schema che si ripete. La Bielorussia, prima che Aleksandr Lukashenko vedesse minacciato il proprio potere dalle proteste, aveva una politica estera meno preclusa all’occidente; oggi che Lukashenko deve contare sul sostegno di Mosca e ha condotto la repressione più dura, Minsk è diventata a più riprese lo strumento in mano a Mosca per portare avanti le proprie strategie, di ricatto o destabilizzazione, a ridosso dell’Ue. Il caso degli aerei dirottati da Lukashenko nei cieli europei per arrestare gli oppositori si è svolto ad esempio a maggio proprio quando il Consiglio europeo doveva decidere su Mosca.

Ora è il Kazakistan ad abbandonare ogni afflato “multivettoriale” e ad affidarsi sia a Vladimir Putin che a Lukashenko stesso: è con loro che il presidente Quasym Toqaev si è consultato per gestire le rivolte. Ha chiesto l’intervento dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva, la “Nato russa”, che infatti ha dispiegato 2.500 soldati. Nel paese, con la motivazione di «annientare i terroristi molti dei quali stranieri», va in scena la repressione: c’è licenza di uccidere chi protesta e il bollettino governativo riferisce di 164 morti nelle proteste e 5.800 arrestati, tra i quali stranieri appunto.

Il papa nell’Angelus è intervenuto per le vittime e ha invocato il dialogo. Ma il dialogo è fuori discussione per il presidente Toqaev, come lui stesso ha precisato. E dopo aver destituito l’ex presidente Nursultan Nazarbaev da capo del consiglio di sicurezza, procede con il repulisti interno; con l’accusa di alto tradimento è finito agli arresti Karim Masimov, che era a capo dell’intelligence e alleato di Nazarbaev. Tutto questo avviene in filo diretto con Mosca: ci si scambia «opinioni sulle misure adottate per ristabilire l’ordine nel paese», come segnala il Cremlino.

«L’esperienza insegna che una volta che hai la Russia in casa, non te la levi più di torno», ha commentato il segretario di stato Usa Antony Blinken; «quando in casa hai gli americani, è difficile anche solo uscirne vivo», è la replica del Cremlino. Difficile credere a Mosca quando dice che il caso kazako non avrà alcuna influenza nei negoziati con gli Usa. Ma questa è la sintesi, secca: «La questione non riguarda gli Usa», né tantomeno deve entrare nei negoziati, dice il Cremlino. Certo è che li condiziona.

Negoziati e buona fede

La Russia si presenta ai negoziati con condizioni che sa essere indigeribili, e lo fa per alzare la posta. La pretesa di Mosca è che la Nato le chieda il beneplacito prima dell’adesione di nuovi membri e anche dell’invio di truppe o missili, il che non riguarda solo l’Ucraina ma soprattutto l’Est Europa. Washington inizia i negoziati, che poi il 12 gennaio passano dal formato Usa-Russia a Russia Nato, e ha una priorità: allontanare lo scenario di un intervento militare russo in Ucraina e in generale violazioni dell’integrità territoriale da parte di Mosca. La Casa Bianca è pronta a rassicurare Putin che non porterà missili in Ucraina, purché l’impegno sia reciproco. Per il team negoziale il margine di dialogo è proprio sull’impegno reciproco a non militarizzare le tensioni nell’area, con rassicurazioni sulle esercitazioni e sul dispiegamento militare al confine. La vera incognita sulla riuscita di un qualche accordo è per Wendy Sherman la good faith, la buona fede, e cioè la reale volontà politica di Mosca di mediare.

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