Molti dei commenti che hanno accompagnato i primi sei mesi della guerra in Ucraina hanno seguito un andamento oscillante, a seconda della situazione del momento. Di fronte al clamoroso fallimento dell’auspicata (da Mosca) Blitzkrieg, la maggioranza degli osservatori si è precipitata a dire che la Russia stava perdendo la guerra. Al momento dell’offensiva nel Donbass e della tenuta del fronte interno russo, l’opinione dominante si è capovolta: Mosca stava vincendo la guerra.

Oggi che quell’offensiva sembra impantanata, in Crimea esplodono aerodromi e depositi di munizioni e le lotte interne al Cremlino sono di pubblico dominio, il sentimento generale tende a tornare al punto di partenza: la Russia sta perdendo la guerra.

Anche se singoli eventi possono apparire decisivi, i conflitti (come tutta la vita politica, d’altronde) sono sempre dei processi, che si iscrivono in tendenze di lungo periodo. Se si perdono di vista quelle tendenze, è facile cadere nell’immediatismo, cioè nel rischio di valutare gli eventi nella loro altalenante evoluzione a corto e cortissimo termine.

Permanente illusione

È ovviamente impossibile individuare qui tutte le tendenze di lungo periodo che sono sfociate nell’aggressione del 24 febbraio. È però possibile isolarne una che, da sola, consente di sfuggire alla trappola dell’immediatismo: la Russia è un paese come nessun altro.

Vero è che nessun paese è mai uguale a un altro, come due fiocchi di neve non sono mai uguali tra di loro; ma la Russia, se ci è lecito invertire il famoso paradosso orwelliano, è meno uguale degli altri. E la ragione, per dirla in tutta semplicità, è che la Russia non solo non è una grande potenza, ma è anzi perennemente assillata dalla paura di scomparire; e la sua specifica forma di lotta per la sopravvivenza è proprio di comportarsi come se fosse una grande potenza. Aiutata dall’esterno, dove tutti credono – o fingono di credere – che lo sia.

Questa permanente illusione fa della Russia un animale a sé stante della zoologia politica internazionale, che dunque non può essere considerato e analizzato come gli altri.

Su cosa sia una “grande potenza” non esiste una definizione condivisa; tutto dipende dai criteri presi in considerazione. Per molti, il requisito decisivo è la forza militare; per altri, è piuttosto la forza economica; per altri ancora, la dimensione del territorio, o la stazza demografica, o anche quello che è stato definito, con molta enfasi, il soft power, cioè la capacità di conquistare e di attrarre con la sola forza della cultura, delle istituzioni, della qualità della vita e così via. Ovviamente, nella valutazione della forza complessiva di un paese, tutti questi criteri entrano in conto, anche se, altrettanto ovviamente, esiste una scala gerarchica che fa sì che, nelle loro reciproche influenze, alcuni criteri siano più influenti di altri.

Si sa che il denaro è il nerbo della guerra; e se lo è della guerra, lo è anche della politica, di cui la guerra non è che la continuazione, con altri mezzi. Senza denaro non si possono fabbricare le armi né pagare i generali, né dare il soldo alle truppe; senza denaro non si può, letteralmente, alimentare il fronte interno; senza denaro non si possono costruire le strade e le ferrovie su cui muovere le merci dal produttore al consumatore, o le truppe dalle caserme al fronte; senza denaro non si possono costruire le scuole che formano ingegneri e analisti politici, ma anche poeti e cineasti che sono l’anima del soft power; senza denaro non si può fare ricerca per produrre i vaccini che arginano le epidemie; senza denaro, si parva licet, non si può mettere in scena quel gran baratto fondato sulla spesa pubblica che sono le elezioni. Senza denaro, insomma, nessun paese può sperare di diventare una grande potenza.

Ecco: la Russia non è e non può essere una grande potenza perché le manca la materia prima – la condizione necessaria, sebbene non sufficiente – per diventare una grande potenza: la forza economica.

Maledizioni geografiche

La ragione principale di questa deficienza è stata riassunta alla fine dell’Ottocento da Alfred Mahan, considerato il fondatore della scuola geopolitica americana: «L’irrimediabile lontananza della Russia dal mare aperto ha contribuito a metterla in una posizione svantaggiosa per l’accumulo di ricchezza».

Sembrerebbe assurdo definire un paese con 37.653 chilometri di costa «lontano dal mare»; eppure è così, perché tutti i suoi accessi sono bloccati dal ghiaccio per gran parte dell’anno. Uno sguardo anche superficiale alla carta fisica del paese mostrerà che il paese soffre di molte altre maledizioni geografiche, tra cui il clima inospitale e un sistema fluviale del tutto inadatto al trasporto. Ma ci basti questo primo elemento, che tra l’altro può essere considerato il filo conduttore della storia politica russa più recente: tutte le linee di espansione seguite negli ultimi due secoli e mezzo portano l’impronta di un’inesaustibile ricerca di sicurezza e di uno sbocco su mari liberi dai ghiacci (il secondo obiettivo è la condizione per realizzare il primo).

Debolezze politiche

Anche qui, però, qualcuno potrebbe obiettare che, se il territorio russo si estende su 17.125.191 km2, ciò che la rende di gran lunga il paese più grande del mondo, questo significa che è riuscita a espandersi più e meglio di tutti gli altri, nonostante le sue deficienze economiche. Tuttavia, molte delle sue conquiste, dal Granducato di Mosca in poi, sono state rese possibili essenzialmente da tre fattori indipendenti dalle sue capacità: l’assenza di insediamenti umani in gran parte delle terre conquistate, l’inconsistenza degli avversari e l’aiuto esterno.

Persino l’inizio della reconquista dei territori tartari fu reso possibile dall’aiuto… dei tartari, che avevano armato il loro vassallo Ivan III per farne un baluardo contro l’allora superpotenza polacco-lituana, estesa dal Baltico a (quasi) il mar Nero, per poi ritrovarsi l’esercito moscovita scatenato contro di loro.

A metà Ottocento, i russi corsero in aiuto del deliquescente impero Qing e salvarono Pechino dalla distruzione, salvo poi prendersi, come pedaggio, tutta la Manciuria a nord del fiume Amur. A metà Novecento i russi pattuirono una serie di annessioni con la Germania di Hitler, salvo poi farsele pagare dagli americani alla fine della guerra.

Che la politica estera dei paesi più deboli sia intessuta di inganni, tradimenti e repentini cambiamenti di casacca non è una esclusività russa, beninteso. I Savoia inventarono la formula «politica del carciofo», ma non il vezzo di allearsi ora con l’uno ora con l’altro dei maggiori rivali sulla scena internazionale (allora la Francia e l’Impero), per farsi ripagare ogni volta da ciascuno con una nuova foglia di carciofo.

Sembrò, ai Savoia e ai loro sudditi, una trovata geniale, che divenne però il «peccato originale» dell’Italia (secondo la definizione di Sergio Romano) una volta unificata la penisola. Anche in questo caso, è questione di dimensioni e ambizioni: se, per una piccola potenza regionale dalle ambizioni limitate, la politica del carciofo sembrava portare frutti, per l’Italia con insensate ambizioni imperiali si è rivelata un disastro immane.

Le vie del collasso

Quando la Russia ha creduto di poter “fare da sé”, nel migliore dei casi ha perso al tavolo delle trattative quello che aveva conquistato sul terreno, come dopo la guerra contro la Turchia del 1877-1878. Nel peggiore dei casi, è andata a schiantarsi su catastrofi immense: basti pensare alla guerra contro il Giappone del 1904-1905, sfociata in una sconfitta memorabile, una rivoluzione, e l’inizio di una rapida disgregazione che portò al collasso dell’impero una dozzina d’anni dopo.

I russi avevano sbagliato i calcoli non solo sulla forza del Giappone ma anche sulla possibilità che Londra e, per la prima volta, Washington, tollerassero di lasciar loro Port Arthur, nella Manciuria meridionale, primo sbocco russo su un mare navigabile tutto l’anno. Un’altra sottovalutazione del nemico fu fatale più di settant’anni più tardi, al momento dell’invasione dell’Afghanistan: anche in quel caso, una dozzina d’anni dopo l’inizio di quel catastrofico intervento, l’impero russo si sfaldò.

Paradosso condiviso

L’idea che la Russia sia una grande potenza, si diceva, è stata sostenuta non solo dagli inquilini del Cremlino ma anche da tutte le altre potenze. Un altro paradosso, ma neppure troppo, se si scava un po’: infatti, se la Russia ha un’eccellente capacità difensiva (grazie alla vastità del suo impervio territorio, alla resilienza della sua popolazione e alle sue materie prime reali o potenziali), ha, d’altro canto, una pessima efficacia offensiva. Queste due condizioni ne fanno un alleato ideale per chiunque voglia sfiancare un avversario e, al tempo stesso, l’alleato russo, come accadde, per esempio, nelle guerre napoleoniche e nella Seconda guerra mondiale. 

In quei due conflitti, i russi poterono vincere perché alleati con le superpotenze dell’epoca (Gran Bretagna e Stati Uniti), e poterono avanzare nel cuore dell’Europa perché quelle superpotenze glielo consentirono. Ma uscirono stremati dalla prova – al punto che, nel 1947, George Kennan, annotò che la Russia sarebbe rimasta «economicamente una nazione vulnerabile e, in un certo senso, impotente».

Dipingere la Russia come una grande potenza minacciosa ha però permesso a Washington di servirsene per tenere divisa l’Europa – una delle due vere minacce esistenziali per gli Stati Uniti, insieme al Giappone – per quarantacinque anni; affermare oggi che «la Russia non si fermerà in Ucraina» significa ripetere la stessa operazione: tenere sulla corda gli europei e spingerli nelle possenti e protettive braccia americane.

Beninteso, questo gioco non è stato praticato solo dagli Stati Uniti: dalla fine dell’Ottocento, la Russia è una carta nella manica della Francia, giocata ora contro la Germania ora contro gli Stati Uniti, e oggi Parigi è disorientata perché non se ne può più servire, almeno per il momento. Lo stesso vale d’altronde per la stessa Germania: dai tempi di Bismarck all’alleanza dell’agosto 1939 e alla Ostpolitik, fino al gasdotto siberiano degli anni Ottanta.

Grazie a questa disponibilità dei suoi supposti rivali, la Russia ha portato al più alto grado di perfezione l’arte del bluff: visto che raramente qualcuno va a guardare le sue carte, ogni sua minaccia è presa sul serio, e possibilmente drammatizzata. Così, l’idea che l’armata rossa potesse proseguire la sua marcia fino a Parigi, a Roma o a Londra è rimasta sospesa nell’aria per tutta la Guerra fredda, nonostante il fatto che, quando i capi del Cremlino hanno cercato di varcare il limite di quanto concesso loro – nel 1948 a Berlino, nel 1950 in Corea e nel 1962 a Cuba – siano stati costretti a ritirarsi con la coda tra le gambe.

Minacce russe

Nella guerra contro l’Ucraina, le minacce russe non si contano più: contro tutti coloro che avessero osato inviare armi a Kiev; contro la Finlandia e la Svezia se avessero cercato di entrare nella Nato; contro gli europei che non avessero pagato il gas in rubli; contro la Lituania se non avesse immediatamente liberato gli accessi a Kaliningrad; contro gli stessi ucraini se avessero osato attaccare la Crimea.

Per non parlare dell’onnipresente minaccia nucleare, già lanciata nel 2008 contro la Polonia se avesse ospitato i missili americani, nel 2009 contro la Danimarca se avesse partecipato ai sistemi di difesa della Nato, nel 2014 contro l’Ucraina se avesse tentato di riprendere la Crimea.

Dopo il 24 febbraio, la litania dell’intimidazione atomica è recitata quasi quotidianamente, in modo diretto o allusivo: agli inizi di luglio, l’incontenibile ex presidente Dmitri Medvedev ha addirittura minacciato di porre fine all’«esistenza del genere umano» (ipse dixit) se la Corte penale internazionale avesse indagato i crimini di guerra russi in Ucraina.

Nella stessa categoria possiamo includere l’occupazione delle centrali di Chernobyl prima e di Zaporizhzhia poi. Nonostante questa raffica di avvertimenti, gli Stati Uniti, il Canada e molti paesi europei hanno continuato a fornire a Kiev armi, denaro, intelligence e addestramento, cioè ad alimentare in maniera sfrontatamente esplicita la guerra contro la Russia, senza aver subito la minima ritorsione militare.

Lotta per la sopravvivenza

Accreditare l’idea che la Russia sia una grande potenza, poi, implica dotarla di una identità e di una finalità strategica. La realtà è che la sua sola finalità strategica, lo si è detto, è la sopravvivenza: la difesa contro nemici reali o, più spesso, percepiti. Una strategia esclusivamente difensiva necessita di un’identità fluida, anzi di più identità; per questo la Russia è un paese intrinsecamente schizofrenico: da quando esiste, per esempio, la disputa tra “asiatisti” (o “slavofili”) e “occidentalisti” è perennemente aperta, e una sintesi non è mai stata trovata.

Oggi, la bandiera attorno a cui i russi sono chiamati a stringersi è la lotta contro l’«occidente», ma nel 1905 il principe Sergej Petrovic Trubeckoj aveva affermato che la Russia era in prima linea nella difesa della civiltà occidentale contro il «pericolo giallo, le nuove orde di mongoli armati dalla nuova tecnologia»; e quarant’anni dopo, alla fine della Seconda guerra mondiale, il ministro dell’Educazione di Stalin, Vladimir Potemkin, ribadì che il «popolo russo» aveva «preservato la civiltà occidentale contro i barbari asiatici». Ma, si dirà, i tempi cambiano.

È certamente vero; ma mentre Putin e tutto il suo coro lanciano invettive acuminate contro l’«occidente», lo stesso corifeo si smarca per paragonarsi nientemeno che a Pietro il Grande, considerato dagli storici come lo zar che ha definitivamente attraccato la Russia all’occidente. E mentre Putin si paragona a Pietro il Grande, il capo del Consiglio di politica estera e della difesa, Sergej Karaganov, nel promuovere l’ipotesi di una “Grande Eurasia”, consiglia di lasciarsi alle spalle «la pagina “petriniana” della nostra storia».

L’arte della menzogna

L’uso spregiudicato della menzogna fa parte delle competenze del buon principe, come sapeva bene Machiavelli; ma in Russia, l’arte della menzogna (sorella gemella del bluff) è stata anch’essa portata a vette inesplorate. Tutta la storia della conquista dell’Asia centrale nell’Ottocento, superbamente raccontata da Peter Hopkirk nel suo The Great Game, è storia di qualche scontro militare e di una miriade di raggiri, finte, trucchi, cospirazioni, subitanei cambi d’alleanze e inganni; in un altro libro, Hopkirk racconta che l’invasione russa dello Xinjiang, nel 1934, fu preceduta dall’invio di un paio di migliaia di soldati con uniformi anonime, senza simboli e senza mostrine; novant’anni dopo, la stessa tattica fu usata per lanciare il primo attacco all’Ucraina.

Tutti i paesi, in guerra, raccontano la “loro” verità, cioè, quasi sempre, delle fandonie; la Russia, però, racconta parecchie “verità” al tempo stesso: il bombardamento della maternità di Mariupol è stato attribuito da Mosca agli ucraini e, allo stesso tempo, giustificato col fatto che non fosse in realtà un ospedale ma un deposito d’armi del nemico; l’affondamento del Moskva, l’ammiraglia della flotta del mar Nero, è stato presentato come un incidente ma, allo stesso tempo, sono state lanciate furenti minacce di ritorsione contro gli ucraini per avere osato tanto.

Lo stesso vale per le ideologie: Indro Montanelli affermava di ammirare il comunista Stalin perché «ha fatto fuori più comunisti di tutti»; l’attuale vangelo del sovranismo è predicato dal paese che ha inventato la teoria e la pratica della “sovranità limitata”, e che certamente non fa gran caso della sovranità delle ex-repubbliche dell’Unione sovietica.

È possibile che alcune delle caratteristiche peculiari russe qui sommariamente illustrate siano smentite da questo o quell’evento della guerra in corso. Ma non bisogna farsi trarre in inganno: la debolezza strutturale russa è destinata a essere il fattore decisivo anche in questa occasione.

Un’ultima cosa: la cultura politica ucraina si è formata, negli ultimi tre secoli, in simbiosi con quella russa, ne è un gemello omozigoto. La sola differenza è che l’Ucraina è più debole; quindi, la sua lotta per la sopravvivenza non può che essere più intensa.

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