La surreale discussione che si è aperta in questi giorni sulla moschea di santa Sofia a Istanbul è spia di quanto i pregiudizi condizionino l’approccio all’islam. Parte cospicua dell’informazione ha surrettiziamente suggerito che il presidente turco Recep Tayyp Erdogan stia trasformando con un atto di arbitrio in moschea una cattedrale cristiana! È quanto purtroppo sembrava intuirsi anche dalle parole di papa Francesco durante l’Angelus del 12 luglio.

Santa Sofia è moschea da 547 anni, da quando nel 1453 gli ottomani conquistarono Costantinopoli. Mustafa Kemal Ataturk ne ha fatto un museo e ora Erdogan la vuole riaprire al culto. Nulla di clamoroso. È come se si fosse sollevato un polverone perché una chiesta sconsacrata a Roma è stata riaperta alla celebrazione della Messa.

Santa Sofia potrà continuare ad essere visitata come prima da milioni di turisti, come la Moschea Blu o san Pietro anche se ovviamente non durante le ore di preghiera.

Il fatto è che molto poco si parla dell’islam, per lo meno in Italia, se non in caso di terrorismo o di rapimenti di giovani cooperanti. Uno dei luoghi comuni che si propalano sulla religione di Muhammad (Maometto) è che i musulmani leggano il Corano, il loro libro sacro, in modo ottuso e acritico, senza la benché minima consapevolezza storica. Ciò tanto coinvolge gli studi orientalistici quanto ha ricadute sul ripensamento che gli intellettuali musulmani stessi stanno conducendo sui pilastri della fede.

La autorevole studiosa tedesca Angelika Neuwirth ha affermato nel 2014 che gli studi sul Corano si troverebbero nella loro infanzia rispetto a quelli biblici, e - dal punto di vista dell’orientalismo -, ciò ha una sua parte di verità. La biblistica moderna è iniziata con la Riforma protestante nel Cinquecento, e già nel Settecento, per esempio con la teoria ermeneutica di Friedrich Schleiermacher (1768-1834), ha acquisito il carattere di scienza. Gli studi coranici invece hanno incominciato a fiorire solo alla fine dell’Ottocento; e inoltre chi vi si dedica è quantitativamente di gran lunga minore rispetto ai biblisti.

Si tratta in entrambi i casi di studi assai sofisticati, che impongono in primo luogo la conoscenza delle lingue semitiche (l’ebraico, l’aramaico, il siriaco, l’arabo) e di lingue ausiliarie, antiche come il greco e il latino, e moderne come l’inglese e, soprattutto, il tedesco. Ma poi bisogna conoscere il contesto storico: Israele nel Vicino Oriente antico, in relazione all’Egitto, all’Assiria, alla Persia; l’Arabia nel cosiddetto Tardo Antico in relazione agli imperi bizantino e persiano-sasanide. E infine bisogna conoscere la cultura, la letteratura e le religioni attraverso l’epigrafia, la filologia, la filosofia, l’antropologia. Insomma, una quantità di discipline che è impossibile vengano padroneggiate da un individuo solo. C’è bisogno di una rete e di una comunicazione dei saperi.

Per gli studi coranici, la questione si fa particolarmente importante se si tratta da parte di un non musulmano che si converte all’islam di imparare i fondamenti della fede.

Naturalmente, non tutti debbono avere una conoscenza dettagliata del libro sacro e della teologia, ma certo una informazione non superficiale può aiutare in una scelta così difficile. A ciò può soccorrere l’Oxford Handbook of Quranic Studies, appena pubblicato (maggio 2020) dalla prestigiosa Oxford University Press, e curato da due docenti della SOAS (la Scuola di studi orientali e africani dell’università di Londra), Mustafa Shah e Muhammad Abdel Haleem.

Il corposo volume di circa 900 pagine contiene ben 57 articoli di specialisti euro-americani e afro-asiatici, musulmani e non musulmani. È un’opera unica nel suo genere fino ad oggi e copre praticamente tutti i campi dell’attuale coranologia.

Due luoghi comuni possono essere sfatati con la lettura dell’Oxford Handbook of Quranic Studies, luoghi comuni che affiorano sempre anche quando si parla di neo-convertiti: che l’islam non abbia mai praticato l’esegesi del Libro sacro, mummificandolo nella sua sacralità, e che il pensiero islamico sia univoco, monolitico e non evolva mai.

I due luoghi comuni sono strettamente correlati. Il commentario al libro sacro infatti ha alimentato il pluralismo del pensare islamico. Ricordo alcuni snodi.

Un detto attribuito al Profeta Muhammad suona: “La mia comunità si dividerà in settantatre sette di cui una sola cammina nella verità”. Quale sia questa corrente che cammina nella verità è ampiamente speculativo; ma quel che importa qui è evidenziare come fin dai tempi più antichi i musulmani fossero consapevoli dell’estrema varietà ed eterogeneità delle loro opinioni e delle loro dottrine.

Già pochi decenni dopo la morte del Profeta nel 632, forse addirittura prima che il testo del Corano venisse codificato, iniziò un’attività interpretativa che, oltre ovviamente a spiegare i passaggi oscuri del testo, si occupava di vari problemi: dal vocabolario e dallo stile alle vite dei trasmettitori di tradizioni; dalla biografia dello stesso Muhammad alle cause contingenti che avevano provocato la rivelazione.

La distinzione tra sunniti e sciiti, sebbene abbia avuto origini politiche, si è poi arricchita di elementi teologici, tra i quali, appunto, l’interpretazione del Corano: grosso modo si può dire che, mentre i sunniti sono più inclini al letteralismo, gli sciiti preferiscono le interpretazioni simboliche, mistiche, esoteriche.

Il commentario contemporaneo ha abbandonato alcuni dei vecchi paradigmi, talora innovandoli. Se esistono correnti che pretendono di trovare nel Corano le anticipazioni della scienza moderna, anche a rischio di forzare la lettera, gli interpreti contemporanei hanno saputo far proprie anche certe metodologie di ricerca occidentali, come la fenomenologia, per aprire a una riconsiderazione del testo adatta ai tempi attuali. Non escludendo soluzioni estreme, come quelle dei cosiddetti fondamentalisti o, meglio, islamisti radicali che non solo hanno fatto del Corano la Costituzione del loro presunto stato islamico, ma ne hanno sbandierato l’utilità come strumento di rivendicazione della giustizia e della liberazione dei popoli colonizzati.

Ciò non significa, naturalmente, che l’interpretazione del Corano manchi di criticità. Per esempio, la piuttosto diffusa tendenza alla venerazione delle autorità del passato e l’idea che il Corano sia parola diretta di Dio e quindi intangibile hanno condotto talora a irrigidimenti e conservatorismi non utili al progresso della religione.

Il Corano presenta problemi testuali non lievi, aspetto che non è detto appaia evidente a chi per la prima volta, come può essere un neo-convertito, si accosta ad un Libro dalla tessitura complessa e stratificata. È dunque necessario meditarvi sopra per bene.

I problemi testuali appaiono analoghi a quelli dell’Antico e del Nuovo Testamento: incertezze e astruserie lessicali; impossibilità, o almeno grave difficoltà a stabilire esattamente come il testo sia stato composto e messo per iscritto; variazioni interne al messaggio.

Si tratta di problemi che riguardano tutti i monumenti della letteratura religiosa del passato, dalla Bibbia ebraica ai Vangeli, dagli scritti di Zoroastro ai Vedanta indù. Ciò però non deve costituire un ostacolo, quanto piuttosto uno stimolo ulteriore all’indagine e all’approfondimento, cosa che un neo-convertito potrebbe fare ancor meglio di un anziano.

L’Oxford Handbook of Quranic Studies offre una preziosissima chiave di accesso a tutte queste problematiche onde far sì che gli studi coranici non siano più – se mai davvero lo sono stati – nella loro infanzia. Certamente c’è da augurarsi che un manuale come questo, a metà strada tra lo specialismo scientifico e l’altissima divulgazione, possa venire utilizzato per l’educazione superiore ma anche, come si è suggerito, per risolvere alcuni dei molti fraintendimenti che riguardano l’islam.

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