Secondo una recente storiografia l’attacco giapponese a Pearl Harbour, che determinò l’ingresso americano nel Secondo conflitto mondiale nel Pacifico, fu provocato indirettamente anche dalle pesanti sanzioni economiche americane che stavano strozzando l’economia del Sol Levante e i suoi sforzi bellici di conquista in Asia. Una interpretazione che dà molta importanza alle sanzioni economiche tra paesi. Possibile? Vediamo nel dettaglio e andiamo con ordine.

L’obiettivo

L’idea di fondo delle sanzioni economiche consiste nella speranza di mettere la popolazione, colpita nelle condizioni di vita quotidiane, contro il rispettivo regime e arrivare al cosiddetto “regime change”, il cambio di governo senza dover sparare un solo colpo di cannone. Nel caso dell’attacco russo all’Ucraina, l’obiettivo degli Usa e dell’Unione europea è di congelare le riserve in valuta della banca centrale russa all’estero, escludere le principali banche russe dal sistema Swift (acronimo per Society for worldwide interbank financial telecommunication) ma di non colpire l’export di gas e petrolio di Mosca né il loro pagamento perché la chiusura dei rubinetti energetici provocherebbe un balzo dell’inflazione in occidente con successiva recessione.

In questo modo l’occidente spera di impedire alla Russia di raccogliere fondi in valuta dai mercati, così da provocare la svalutazione del rublo e dare il fuoco alle polveri di un’inflazione che colpisca i prezzi interni e le pensioni. L’obiettivo di fondo delle sanzioni è quello di provocare un’insurrezione degli oligarchi vicini al Cremlino e del ceto popolare più debole contro Putin.

Finora però le sanzioni economiche non sono mai riuscite in passato a provocare il regime change a Cuba, nell’Iran degli ayatollah, in Corea del Nord, e non si vede come questo possa funzionare in un paese molto nazionalista attaccato dall’esterno come la Russia, che vive di un complesso di assedio anche quando non ce n’è traccia.

Il caso cubano

Ma torniamo ai casi passati. Il più lungo esperimento di sanzioni emanate contro un paese è quello di Cuba, una piccola e periferica isola caraibica che dopo la rivoluzione castrista del 1959 ha saputo resistere per decenni al blocco economico della maggiore potenza economica del mondo. Anzi i provvedimenti economici anti-Avana hanno rafforzato il regime dei fratelli Castro e i suoi successori che hanno avuto buon gioco ad accusare Washington di tutte le difficoltà che si scaricavano sulla popolazione cubana.

L’embargo contro Cuba, chiamato dai cubani el bloqueo, è un embargo commerciale e finanziario imposto dagli Usa all’indomani della rivoluzione castrista. Il 17 dicembre 2014, il presidente democratico statunitense Barack Obama ha annunciato l’intenzione di voltar pagina. Tuttavia, per poter porre fine al blocco, sarebbe stato necessario il voto del Congresso, controllato dal partito repubblicano, che invece si è opposto. Con la fine dell’amministrazione Obama, il nuovo presidente Trump ha rinnovato l’embargo.

Il blocco riguarda prevalentemente il commercio bilaterale Usa-Cuba e non il commercio tra Cuba e il resto del mondo ma, di fatto, per timore delle sanzioni secondarie, Cuba è off limits per molte relazioni commerciali e finanziarie a livello occidentale. Molti autori, tra cui lo storico Saverio Tutino, ritengono che l’effetto principale delle sanzioni americane sia stato quello di provocare il lento scivolamento nella sfera sovietica del regime cubano che all’inizio era un movimento politico per l’indipendenza nazionale dell’isola che si rifaceva all’azione di José Martì, un leader del movimento per l’indipendenza cubana.

Le sanzioni iraniane

Khomeyni, il leader della rivoluzione teocratica del 1979, definiva gli Stati Uniti come il “grande Satana”. Quarantadue anni dopo, gli iraniani hanno votato nel giugno 2021 in un’elezione “farsa” secondo l’opposizione interna, per consegnare la presidenza, cioè il premier del governo, al capo della magistratura, un ultraconservatore sottoposto a sanzioni statunitensi per abusi sui diritti umani.

Di fronte alle sanzioni Usa, l’attuale guida suprema Khamenei ha deciso di arroccarsi e ricompattare il regime. Con l’incertezza che ancora circonda a Vienna gli sforzi negoziali dell’Iran per rilanciare l’accordo nucleare del 2015, la vittoria dei falchi a Teheran è stata come una sorta di referendum sulla gestione da parte della leadership al potere dal 1979 di una serie di crisi tra cui quella economica e di legittimità rappresentativa.

Il falco ultraconservatore, Ebrahim Raisi, sessant’anni, stretto alleato della guida suprema Ayatollah Ali i Khamenei e che in futuro potrebbe diventarne l’erede nella carica di guida suprema, ha stravinto e ha sostituito Hassan Rouhani, un riformista pragmatico a cui la costituzione impediva di correre per un terzo mandato di quattro anni.

Duro critico dell’occidente, Raisi è sotto sanzioni statunitensi per presunto coinvolgimento nelle esecuzioni di centinaia di prigionieri politici decenni fa. Raisi è stato tra i quattro giudici componenti la “commissione della morte” che nel 1988 hanno condannato alla pena capitale numerosi oppositori. Raisi è il primo presidente iraniano a essere stato sanzionato prima di assumere la carica.

La vittoria di Raisi ha confermato la fine dei politici riformisti e pragmatici come Rouhani, indeboliti proprio dalla decisione di Trump di uscire nel 2018 dall’accordo nucleare firmato nel 2015 da Obama e di reimporre sanzioni che hanno soffocato il riavvicinamento con l’occidente. Anche l’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad, oppositore dell’occidente, non ha votato visto il risultato scontato per assenza di rivali. Ahmadinejad ha aggiunto che il paese si sta richiudendo dietro i pasdaran, i guardiani della rivoluzione, che stanno eliminando ogni dissenso.

Le sanzioni americane hanno ridotto l’export di petrolio iraniano da 2,8 milioni di barili al giorno toccati nel 2018 a un minimo di 200mila barili al giorno in alcuni mesi del 2020, sebbene poi i volumi siano aumentati da allora grazie agli acquisti operati dalla Cina, che ha sfidato le ire americane. La valuta locale, il rial, è diventata carta straccia con un crollo del 70 per cento dal 2018.

Sotto pressione per l’aumento di inflazione e disoccupazione, rispettivamente intorno al 39 per cento e all’11 per cento, la leadership del clero sciita aveva bisogno di nuovo sostegno per rafforzare la sua legittimità, gravemente danneggiata dopo una serie di proteste contro la povertà esplose e mai veramente cessate dal 2017. E sebbene il consiglio dei guardiani avesse escluso importanti candidati moderati e conservatori, come il vice presidente Eshaq Jahangiri, e l’ex presidente del parlamento, Ali Larijani, il regime si è rafforzato e ha rilanciato l’accordo sul nucleare per liberarsi dalle sanzioni finanziarie e sull’export di petrolio.

La Corea del Nord

La Corea del Nord è sempre più isolata internazionalmente ma sempre più ostinata nel proseguire con i suoi esperimenti balistici. Le sanzioni, anche in questo caso, non hanno mai davvero funzionato anche a causa dell’aiuto cinese che è sempre intervenuto a sostengo del regime nordcoreano. I tentativi americani di negoziare anche ai massimi livelli sono tutti falliti miseramente. Un altro caso di insuccesso delle sanzioni economiche.

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