«Sanzionami questo/amica tenace/lo so che ti piace/ma non te ne do!», cantava Rodolfo de Angelis nel 1936. L’«amica tenace» (che diviene «rapace» nella seconda strofa) era la Gran Bretagna del primo ministro Stanley Baldwin, che il 18 novembre 1935 era riuscita a far approvare alla Società delle nazioni un pacchetto di sanzioni economiche e commerciali al regime mussoliniano in seguito all’invasione dell’Etiopia scatenata il 3 ottobre.

La Società della nazioni era nata il 28 giugno del 1919 in seguito al trattato di pace di Versailles per appianare le controversie internazionali. Con l’aumento della tensione con l’Italia, l’imperatore d’Etiopia Hailé Selassié si era rivolto alla Società delle nazioni in cerca di protezione, chiedendo un arbitrato che frenasse le mire espansionistiche italiane.

L’Etiopia e l’Italia erano allora entrambe membri dell’organizzazione e il loro caso fu uno dei momenti più difficili della vita dell’organismo internazionale e, nei fatti, uno dei suoi più grandi fallimenti.

Quando nell’autunno del 1935 Gran Bretagna e Francia, che con il loro peso geopolitico indirizzano le scelte della Società, attivano il sistema sanzionatorio dopo lunghe discussioni, lo fanno a invasione già in atto e con criteri troppo blandi per danneggiare seriamente lo sforzo bellico italiano.

I paesi, circa una quarantina, che aderiscono alla Società, pur approvando le sanzioni in linea di principio si dimostrano restii a compromettere le proprie relazioni commerciali con un partner come l’Italia proprio mentre la maggior parte di essi si sta riprendendo dai postumi della Grande depressione del 1929.

Alcune delle più grandi economie del pianeta, come Stati Uniti, Giappone e Germania, non prendono parte al blocco: la Germania hitleriana è infatti uscita dall’organizzazione già nel 1933, così come l’impero giapponese, mentre gli Stati Uniti non ne hanno mai fatto parte.

Perfino tra i più tenaci propugnatori delle sanzioni il “ricatto economico” risulta difficilmente gestibile: le élite economiche di Gran Bretagna e Francia non accettano ad esempio l’idea di porre l’embargo su petrolio e carbone, la cui mancata importazione avrebbe messo velocemente in ginocchio il regime di Mussolini.

La scusa accampata dagli stessi inglesi, preoccupati di ledere gli interessi delle proprie compagnie petrolifere, è che l’Italia avrebbe comunque potuto approvvigionarsi da paesi come Stati Uniti e Germania. Simbolo di questa ambiguità britannica, ricorda Angelo del Boca, è il fatto che alle navi italiane non viene nemmeno proibito il passaggio del canale di Suez, mossa che da sola avrebbe messo in crisi la logistica e gli approvvigionamenti fascisti.

Insomma, un fallimento annunciato, che anzi ha risvolti politici di segno opposto a quello desiderato andando a favorire le mosse di Mussolini.

IL FRONTE INTERNAZIONALE

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Le sanzioni si presentano come una dichiarazione di guerra all’economia italiana che il regime riesce a sfruttare alimentando la grancassa del malcontento interno e scaricando all’esterno colpe e responsabilità.

Finalmente la retorica mussoliniana ha un nemico esterno identificabile a cui rivolgere la propria invettiva e su cui scaricare ogni possibile contraddizione del regime. Le risoluzioni internazionali vengono descritte come la prova dell’assedio delle potenze “demoplutocratiche” alla dittatura fascista.

Esauste, decadenti e incapaci di competere da sole con la forza del regime italico, le potenze del vecchio ordine si servono della loro influenza residua per manovrare le scelte internazionali a sfavore del popolo italiano.

Troppo codarde per prendere le armi, usano il grimaldello economico per provare a fiaccare il duce. Questa immagine si inserisce nel solco di una retorica fascista consolidata, che descrive la situazione italiana come quella di una nazione vittima della storia recente: una sorta di complotto internazionale che vuole impedire all’Italia rinata di prendere il proprio posto tra i grandi.

Il mito dello scontro tra popoli vecchi e popoli giovani, che sarà anche uno dei temi centrali del discorso con cui il 10 giugno 1940 Mussolini dichiarerà dal balcone di palazzo Venezia la guerra fascista, ha nell’episodio delle sanzioni del 1935-36 il suo risvolto più visibile e concreto.

La Gran Bretagna diviene il bersaglio preferito: viene facilmente etichettato come ipocrita e codardo l’atteggiamento di un paese che si erge a difensore degli abissini pur dominando attraverso il suo impero coloniale un sesto delle terre emerse e un quarto della popolazione mondiale.

Una potenza che, accusano i fascisti, non ha nemmeno il coraggio di combattere apertamente le proprie battaglie ma si fa scudo di un organismo internazionale per dare una parvenza di legalità alle proprie trame. il regime fascista ha buon gioco nel presentare le scelte della Società delle Nazioni come un’ipocrita forzatura inglese, che utilizza uno strumento di conciliazione internazionale per combattere l’impero fascista e nel farlo dà addirittura diritto di parola nel consesso internazionale all’impero schiavista degli abissini.

La carta razzista è messa subito sul tavolo dagli italiani, che nel loro sforzo di comunicazione internazionale sottolineano il fatto che si tratta pur sempre di uno stato africano, un “paese di neri”, e come tale, indegno del trattamento e delle garanzie concesse dal diritto agli stati “bianchi”. Un argomento che fa breccia in molti dei paesi membri della Società.

Prima il commercio

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Teoricamente tutti favorevoli al mantenimento e alla difesa dell’integrità territoriale dei singoli stati, ma nei fatti restii a concedere questa protezione a qualsiasi entità la richieda, tanto più quando questa concessione presenta dei costi.

Praticamente nessuna, tra le nazioni della Società, sembra disposta a rovinare la propria bilancia commerciale per difendere i diritti del negus sul proprio impero. La Società delle Nazioni si era già impegnata in precedenza nella risoluzione di controversie internazionali, come la questione del confine greco-bulgaro nel 1925, la questione della regione della Saarland tra Francia e Germania negli anni Venti e Trenta, oppure la composizione del conflitto tra Colombia e Perù del 1932.

Ma erano tutte questioni in cui, in ballo, erano interessi relativi a nazioni appartenenti alla parte dominante dell’ordine mondiale.

Con la guerra italo-etiopica invece, per molti osservatori sembra trattarsi di una questione più assimilabile alle politiche imperialiste già viste in un secolo e mezzo di colonialismo bianco che non a una vera questione tra stati con pari diritti.

La propaganda e la diplomazia italiana hanno poi buon gioco nel rivoltare l’argomento contro la stessa credibilità dell’organizzazione: se la Società delle Nazioni accoglie tra i suoi membri perfino la selvaggia Abissinia, appoggiandone le istanze, allora è la Società stessa a non essere degna del credito internazionale.

In più, il fatto che questa crociata in difesa della sovranità di uno stato africano sia portata avanti proprio dall’impero britannico pone il racconto delle sanzioni in una prospettiva quasi macchiettistica per la stampa italiana e non solo.

Prospettiva che la propaganda italiana sa sfruttare con abilità: Il conflitto retorico finisce in molti casi per offuscare persino l’impresa sul campo in Africa: le reali motivazioni dello scontro, per la propaganda fascista, non sono il presunto diritto all’indipendenza di un paese africano, ma il diritto ad autodeterminare il proprio destino da parte degli italiani, un popolo giovane e proiettato fascisticamente verso il futuro.

Con un ribaltamento di prospettiva ardito quanto riuscito, la dittatura fascista riesce infine a presentare sé stessa come nazione aggredita che combatte per il diritto a guidare il proprio destino fuori dai confini, troppo stretti, che la storia le ha assegnato.

Sul piano internazionale perciò non si attiva lo sperato cordone di isolamento attorno al regime e mentre il peso maggiore delle sanzioni ricade proprio su britannici e francesi, Mussolini presenta in patria e a livello internazionale la questione separando le responsabilità di Londra dall’acquiescenza delle altre nazioni che approvano il pacchetto di sanzioni.

I paesi che votano la risoluzione che punisce l’Italia nel racconto fascista “sono costretti” dallo strapotere britannico a piegarsi di fronte alle richieste di un impero globale ma decrepito e ipocrita. Una lettura che permette all’Italia di mantenere buone relazioni anche con i paesi che le hanno votato contro e di continuare a intrattenere rapporti commerciali con molti di essi.

È proprio la strumentalizzazione del blocco sanzionista a favorire un ulteriore avvicinamento della Germania nazista al duce. Hitler si accorge dell’opportunità di scardinare il cosiddetto ordine di Versailles, uscito dalla pace del 1919, proprio cooptando nel proprio campo uno dei paesi vincitori della prima guerra mondiale.

IL FRONTE INTERNO

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Sul piano interno la canzoncina di de Angelis dà la misura del modo in cui viene affrontata, dal punto di vista della propaganda, l’offensiva internazionale.

La resistenza alle sanzioni in Italia viene condotta in modo sprezzante, ironico e, in ultima analisi, almeno dal punto di vista retorico, vincente.

Il racconto dell’assedio internazionale appare evidente e la scelta di un bersaglio grosso, identificabile e facilmente attaccabile per le sue ambiguità geopolitiche come la Gran Bretagna si rivela azzeccata e la campagna mussoliniana ottiene i risultati sperati: gli italiani sembrano sopportare le – relativamente poche - restrizioni imposte dal blocco del commercio internazionale in nome della solidarietà patriottica, mentre le manifestazioni simboliche della volontà fascista di reagire, come la giornata dell’oro alla patria del 18 dicembre 1935 in cui il regime invita gli italiani a donare oro e metalli preziosi per sostenere lo sforzo bellico, chiariscono il senso stesso della posta in gioco: è l’intero paese sotto attacco e quindi è compito di ognuno sostenerlo.

Con un’ulteriore mossa retorica il regime riesce ad identificare se stesso e la propria politica come un tutt’uno col corpo nazionale, avverando almeno nell’immaginario di regime la tanto sognata, da Mussolini, identificazione tra partito, regime e popolo.

In questo la partecipazione alle manifestazioni contro l’embargo diventa non un’attività semplicemente politica, ma patriottica, e l’opposizione alle iniziative della dittatura è un atto anti-italiano più che antifascista; anzi, di più, è anti-italiano in quanto antifascista.

Gli oppositori del regime vengono tacciati di essere agenti stranieri prezzolati e la critica alle misure fasciste diventa disfattismo e tradimento.

Gli altri principali centri del potere, a volte in concorrenza col regime, in questo caso si allineano: la santa Sede mantiene per tutta la campagna una benevola neutralità, mentre la regina Elena, moglie del re Vittorio Emanuele III, vuole essere la prima donna d’Italia a donare il proprio anello nuziale alla causa.

A coronare questo impianto retorico che contribuisce a compattare gli italiani attorno al regime c’è lo svolgimento favorevole delle operazioni in Africa: come ricorda Renzo de Felice «di fronte alla constatazione che la guerra rimaneva circoscritta all’Etiopia e procedeva vittoriosa […] si affermò uno stato d’animo di euforico consenso e di esaltante nazionalismo...».

Verso l’autarchia

Le sanzioni stimolano i primi provvedimenti per affrancarsi dall’interdipendenza dal contesto economico globale: è del 23 marzo del 1936 il primo discorso di Mussolini al Consiglio nazionale delle Corporazioni sulla necessità di perseguire scelte di economia autarchica: «L’assedio economico […] è stato decretato contro l’Italia perché si è contato [...] sulla modestia del nostro potenziale industriale ha sollevato una serie di problemi che tutti si riassumono in questa proposizione: l’autonomia politica, cioè la possibilità di una politica estera indipendente, non si può più concepire senza una correlativa capacità di autonomia economica […] La nuova fase della storia italiana sarà dominata da questo postulato: realizzare nel più breve termine possibile il massimo possibile di autonomia nella vita economica della Nazione».

Una mossa che, a ben guardare, tradisce nonostante tutto il timore da parte del regime del sistema sanzionatorio e che suggerisce il fatto che una applicazione più efficiente dell’embargo avrebbe avuto ben altre conseguenze: è evidente allo stesso Mussolini il fatto che in futuro qualsiasi puntata offensiva in politica estera potrebbe non essere così fortunata da godere di un’opposizione così sfilacciata.

Il tentativo di scelta autarchica del regime può essere letto attraverso la consapevolezza, da parte del duce, del fatto che le sanzioni, se ben applicate, potrebbero effettivamente compromettere le velleità di dominio fascista.

Addis Abeba viene occupata il 5 maggio del 1936. Il 4 luglio l’imperatore Hailé Selassié in un ultimo disperato appello chiede almeno alla Società delle Nazioni di non riconoscere la conquista italiana. Richiesta respinta. Le sanzioni sono ufficialmente abolite il 14 luglio dello stesso anno.

L’economia italiana è riuscita a sopravvivere al blocco internazionale, invero molto blando e mal applicato, e questo risultato viene inserito dagli agiografi del duce tra le vittorie politiche del dittatore.

La proclamazione dell’Impero è il coronamento della retorica antisanzionista e un trionfo personale dello stesso Mussolini: il regime, cioè il paese, è riuscito a vincere contro tutto e contro tutti, spezzando l’assedio delle “inique sanzioni” e aprendo una nuova strada di conquiste.

La vittoria del Davide italico contro il decrepito Golia inglese è uno dei traguardi retorici del fascismo maturo, forse il culmine stesso del ventennio “raccontato” attraverso la propaganda di regime.

Si tenterà di replicare il cliché anche con la seconda guerra mondiale, con risultati però di tutt’altro tenore: in quel caso la disparità delle forze in campo e la risolutezza degli alleati scoprirà quasi subito il bluff fascista, precipitando l’Italia in una guerra lunga e dagli esiti disastrosi.

Ma la stagione delle sanzioni rimane uno dei momenti più importanti per la costruzione delle interconnessioni tra il regime fascista e la società.

L’unica vera grande sconfitta nel braccio di ferro sulle sanzioni è invece proprio la Società delle Nazioni: l’organismo, accusato di essere poco più di uno strumento delle politiche di potenza inglese e francese, si dimostra incapace di gestire in modo celere ed efficace le emergenze internazionali per cui era stato creato, venendo progressivamente accantonato.

La fine della società 

Dopo l’occupazione di Addis Abeba la stessa Gran Bretagna, desiderosa di normalizzare i rapporti con l’Italia fascista per recuperare il terreno perso nei confronti delle manovre hitleriane, abbandona le posizioni assunte dalla Società annientandone la credibilità internazionale.

Il precario sistema di bilanciamento e arbitrati scaturito dalla prima guerra mondiale non avrà praticamente più voce in capitolo proprio nel momento in cui il continente europeo si avvia verso una nuova catastrofe.

Le crisi che tormentano la politica europea dopo la vicenda etiopica, dalla questione austriaca a quella cecoslovacca, vedono la riproposizione del vecchio schema dell’accordo tra grandi potenze: Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia si siedono al tavolo delle trattative senza prendere in considerazione l’opzione di un arbitrato internazionale.

Nel caso della crisi dei sudeti in Cecoslovacchia, addirittura senza nemmeno interpellare lo stesso governo di Praga.

La Società delle Nazioni dopo il “caso Etiopia” rimane attiva ancora una decina d’anni, riuscendo a superare la seconda guerra mondiale nella quasi totale indifferenza internazionale: viene definitivamente soppiantata dall’istituzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e sciolta nel 1946.

Un lungo, anonimo crepuscolo, avviato proprio dallo scontro sulle sanzioni all’Italia fascista che svela l’incapacità della comunità internazionale di slegare i destini della pace dagli interessi di parte dei singoli stati.


Bibliografia

Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa orientale. La conquista dell'impero, Laterza, Roma – Bari, 1979, p. 284-285.

Renzo De Felice, Mussolini, gli anni del consenso, Torino 2018, p. 626.

Pietro Boidi, La teoria e la pratica del commercio internazionale, Torino 1938, p. 484-489.

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