Nelle riflessioni di queste settimane un interrogativo ricorrente riguarda le possibili implicazioni della guerra in Ucraina per la stabilità nello stretto di Taiwan. Le interpretazioni divergono a seconda di come si guardi alla guerra in Europa, alle sue origini e alle sue prospettive.

Non va dimenticato, tuttavia, che lo stretto di Taiwan si inserisce all’interno di una più complessa partita strategico-militare che si gioca nell’Asia orientale marittima nel suo complesso. Una partita che risponde a dinamiche strutturali, connesse cioè ai cambiamenti in atto nella distribuzione del potere, con il declino (quanto meno percepito) dell’egemone e l’ascesa di un potenziale sfidante. Proprio i mari dell’Asia orientale rappresentano infatti la faglia di più immediato attrito fra Cina e Stati Uniti, poiché entrambe le potenze detengono in questa regione rilevanti interessi.

Capacità di interdizione

Da un lato, per la Cina si concentrano qui alcuni interessi considerati essenziali. È il caso, appunto, della questione di Taiwan, vitale per Pechino sul piano politico e persino identitario. L’isola è infatti il tassello mancante di quella riunificazione nazionale che, nella narrazione ufficiale del partito, quest’ultimo avrebbe realizzato dopo il secolo di “umiliazione” e frammentazione del paese per mano straniera.

In secondo luogo, i mari della regione presentano rilevanza strategica in virtù delle vie di comunicazione che li attraversano, congiungendo la Cina a importanti mercati di approvvigionamento e di sbocco.

E ancora, il mar cinese meridionale in particolare è uno spazio cruciale nella strategia di deterrenza nucleare cinese, poiché è da qui che – in considerazione della maggior profondità dei fondali – i sottomarini lanciamissili balistici cinesi possono raggiungere l’oceano aperto e porre una credibile minaccia di “second strike” verso gli Stati Uniti continentali.

Per questi motivi, Pechino lavora da tempo al potenziamento di capacità militari che vengono definite, nel gergo specialistico, di “anti-access/area denial” (A2/AD). In altre parole, capacità di interdizione su base regionale, volte cioè a tenere fuori dalla regione un potenziale avversario intenzionato a insidiare gli interessi cinesi. Si tratta di una tendenza evidente in particolare in ambito navale sin dalla fine degli anni Ottanta, con il progressivo allargamento delle capacità di interdizione dalle acque costiere ai cosiddetti “mari vicini”.

Un passaggio cruciale è stata la crisi nello stretto a metà degli anni Novanta, quando a Pechino si percepì il rischio che l’obiettivo finale della riunificazione potesse essere irrimediabilmente compromesso dall’emergere di spinte indipendentiste sull’isola, con il tacito sostegno di Washington.

Negli anni successivi la marina dell’Esercito popolare di liberazione (Epl) si è dotata di cacciatorpediniere e sottomarini d’attacco di costruzione russa, tecnologicamente più avanzati di quanto la cantieristica cinese fosse allora in grado di produrre. L’obiettivo era aumentare notevolmente i costi di un ipotetico intervento americano a sostegno dell’isola, al fine di dissuadere Washington da simili propositi e, conseguentemente, Taipei da qualsivoglia tentazione. Un complesso esercizio di deterrenza, dunque, giocato – come ogni esercizio di deterrenza – sulla credibilità della minaccia. Di qui le esercitazioni militari che, da allora, hanno contraddistinto le fasi di maggior tensione nella relazione triangolare Pechino-Taipei-Washington.

Trasformazione dello strumento militare

In anni più recenti, il potenziamento delle capacità di interdizione ha continuato a rappresentare una priorità nel processo di ammodernamento dello strumento militare, benché ora affiancato al perseguimento di capacità di proiezione anche al di là della regione (con il programma delle portaerei, in particolare). Notevolmente accresciute sono nel frattempo le capacità di produzione nazionale, fondate sull’accelerato sviluppo di una cantieristica che – secondo il dipartimento della Difesa statunitense – sarebbe ormai alla pari, se non in vantaggio, rispetto a quella americana.

Di qui il rapido ammodernamento della flotta di superficie con nuove navi di costruzione cinese e dotate di capacità sempre più avanzate: gli incrociatori della classe Renhai (tipo 055), i cacciatorpediniere della classe Luyang III (tipo 052D), nuove grandi navi d’assalto anfibio (classe Yuzhao tipo 071, classe Yushen tipo 075). Ma il potenziamento delle capacità navali rappresenta solamente una dimensione all’interno di un sistema A2/AD a più livelli, che include anche capacità aeree e missilistiche.

Nello stesso contesto va letta anche l’installazione di infrastrutture militari su alcune isole contese nel mar cinese meridionale, controllate dalla Cina e oggetto di lavori di espansione artificiale negli ultimi anni.

Né va dimenticato che l’ammodernamento delle dotazioni è in realtà solo l’ultimo gradino di una trasformazione complessiva dello strumento militare che, negli ultimi decenni, ha riguardato anzitutto la dottrina e più di recente anche l’organizzazione.

Da un lato sono stati introdotti nuovi concetti dottrinali per la conduzione di “guerre informatizzate” – le guerre a elevato contenuto tecnologico figlie della “rivoluzione negli affari militari” teorizzata negli Stati Uniti sin dagli anni Novanta. Dall’altro sono state elaborate imponenti riforme organizzative necessarie a mettere l’Epl in condizione di combattere guerre di questo genere. Dopo forti ritardi, la riorganizzazione ha infine avuto inizio nel 2016 e ha profondamente ridefinito il modello organizzativo, in particolare ridimensionando il peso delle forze di terra rispetto ad altri servizi, a partire dalla marina.

Rivendicazioni americane

Teatro di interessi vitali per la Cina, l’Asia orientale marittima è però anche teatro di rilevanti interessi americani. Dal punto di vista strategico-militare, l’egemonia degli Stati Uniti si fonda sulla capacità di proiettare potenza su scala globale, a tutela dei propri interessi nazionali e a difesa dei propri alleati e partner. Lo sviluppo di capacità di interdizione da parte cinese rappresenta dunque una sfida particolarmente insidiosa per gli Stati Uniti.

Se Pechino fosse in grado di innalzare significativamente i costi della proiezione americana nella regione, con quale credibilità Washington potrebbe continuare a presentarsi ai propri alleati asiatici quale garante della loro sicurezza? Di qui l’esigenza di rafforzare la presenza militare nella regione, una priorità che ha accomunato la politica americana dell’ultimo decennio attraverso le amministrazioni Obama, Trump e Biden.

A questa logica rispondono per esempio le cosiddette “operazioni per la libertà di navigazione” (Fonop) condotte dalla marina militare americana nel mar cinese meridionale e volte tanto a contestare le rivendicazioni cinesi quanto a rinsaldare la credibilità americana dinanzi ad alleati e partner. E alla stessa logica rispondono sviluppi recenti, quali la ricerca di un coordinamento sempre più stretto con Australia, Giappone e India (Quad) e con Australia e Regno Unito (Aukus), ma anche la tentazione di un’espansione della cooperazione militare con Taiwan, forzando l’interpretazione della politica della “Cina unica” sin qui seguita dagli Stati Uniti.

Acque lontane, parrà, dal teatro europeo sconvolto dalla guerra in Ucraina. Tuttavia, i dilemmi sollevati dalla partita strategico-militare in corso in Asia riguardano anche noi europei. E questo a maggior ragione in una fase in cui, con il multilateralismo ritrovato dell’amministrazione Biden, più pressanti si fanno le richieste americane di un ruolo attivo degli alleati europei nell’Asia orientale marittima. Ma vi sono realmente interessi europei in gioco in questa complessa partita? E se sì, di che tipo? In tempi di dibattito grand-strategico e di discussioni su fisionomia e costi dello strumento militare, sarà bene interrogarsi anche su questo.

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