Pur senza pretendere di essere una scienza, la geopolitica è costellata di assiomi. E sui rapporti sino russi ce ne sono due contraddittori. Uno è che gli imperi confinanti tendono a collidere. L’altro che i mari uniscono e i continenti separano. Russia e Cina dovrebbero dunque collidere perché condividono la frontiera più lunga del mondo. Ma lo spazio fra questa frontiera e gli Urali ha l’estensione di un oceano e le rare città hanno l’aspetto di isole interconnesse da rotte ferroviarie, gasiere e oggi anche oceaniche (lungo le coste russe dell’Artico). Un rebus geopolitico che proverò a sciogliere con un sommario excursus storico sulla cosiddetta “strana coppia”.

I primi allarmi

Separati per secoli dall’Orda d’oro mongola, i due imperi entrano in diretto contatto solo a partire dal 1644, anno della conquista mancese della Cina. Un trattato del 1689 stabilisce la prima frontiera e un altro del 1727 il primo emporio per lo scambio legale di pellicce russe contro tè cinese.

I primi allarmi occidentali per i rapporti russo cinesi iniziano con Caterina II, cultrice di chinoiseries e più sinofila e “confuciana” di Christian Wolfe, Voltaire, Quesnay e dei gesuiti. Nel 1777 il  Dictionnaire di Jean-Baptiste-René Robinet citava infatti, come esempio di «progetto pericoloso» per la libertà d’Europa, quello attribuito a Pietro il Grande di «far passare il commercio della Cina e delle Indie orientali attraverso» l’Asia centrale dominata dalla Russia. Si è poi attribuito a Caterina di aver detto, nel 1787: «Non morirò prima di aver cacciato i turchi dall’Europa, piegato l’orgoglio della Cina e aperto il commercio con l’India».

Ma la Russia era allora saldamente europea e l’embrionale antagonismo anglo russo, iniziato nel 1763, riguardava solo il quadrante nordatlantico del globo. E nel 1803 pure l’iniziativa di Alessandro I per l’apertura del commercio all’intera frontiera è naufragata per il rifiuto russo di prestare la genuflessione al celeste imperatore, come dieci anni prima era avvenuto alla missione britannica.

Il declino dell’impero cinese

A porre le condizioni di una penetrazione russa in Cina sono stati il declino socioeconomico cinese, il «grande gioco» anglo russo in Asia centrale e la pressione europea ai due capi dell’Eurasia, che presenta una forte analogia con quella americana di oggi. L’effetto congiunto della guerra di Crimea, della seconda guerra dell’oppio e della rivoluzione dei Taiping spinge infatti la Russia verso oriente e la dinastia manciù a porsi sotto la sua protezione, cedendole, nel 1858, tutta la Manciuria fino al confine coreano, dove nel 1871 sorge Vladivostok, principale base russa del Pacifico.

Lo smembramento della Manciuria e la perdita dell’accesso ai mari a est della Corea sono compensati dall’appoggio russo nella spietata repressione delle rivolte delle minoranze Miao e Hui appoggiate in parte da Gran Bretagna e Turchia.

È ancora grazie alla Russia che nel 1884-1885 la Cina sventa il colpo di stato filogiapponese in Corea e pareggia la guerra con la Francia, pur dovendo riconoscere il protettorato francese sul Tonchino e l’Annam. Intanto la spaventosa crisi socioeconomica cinese prodotta dall’imperialismo fornisce mano d’opera semigratuita all’Union Pacific, innescando la feroce reazione razzista degli operai bianchi affamati dagli immigrati cinesi. E dagli Stati Uniti l’isteria sinofoba dilagava in Europa e in Russia.

La costruzione della Transiberiana, decisa dalla Russia nel 1890, non è meno destabilizzante della Belt and Road Initiative lanciata nel 2013 da Xi Jinping. Porta la Russia a collidere col Giappone provocando la formale alleanza anglo nipponica, la guerra russo giapponese, la rivoluzione del 1905, una pace mediata dal presidente Roosevelt e un accordo anglo russo sulla spartizione della Persia che incrinano lo storico asse russo tedesco e contribuiscono allo scoppio della Grande guerra.

L’intervento dell’Intesa nella guerra civile russa (con 200mila rifugiati bianchi ad Harbin) consente a 70mila giapponesi di occupare pure Vladivostok e spingersi fino al Baikal. Contenuti da un simbolico sbarco americano e attaccati dai bolscevichi nel 1922, evacuano Vladivostok e, nel 1925, anche il Nord Sakhalin. Continuano però ad appoggiare i governi separatisti delle province settentrionali contro il Kuomintang di Sun Yat-sen, che, abbandonato da Gran Bretagna e Stati Uniti – paghi di controllare porti e fiumi – si rivolge nel 1921 all’Unione sovietica, già padrona della Mongolia indipendente.

Contro Trockij, Stalin convince il Comintern ad appoggiare il Kmt contro i signori della Guerra, finalmente sottomessi nel 1928, ma l’ascesa di Chiang kai-shek, col massacro anticomunista di Shanghai, porta alla prima guerra civile col Pcc (1927-1937) e al massiccio intervento militare sovietico del 1929 sull’Amur (applaudito da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, impressionati dall’efficienza diplomatica e militare bolscevica) contro il tentativo cinese di estromettere l’Unione sovietica dalla gestione della ferrovia cinese orientale.  

Se nel 1939 i sovietici fermano l’invasione giapponese alla frontiera mongolo-mancese, non aiutano però la resistenza cinese e intervengono contro il Giappone solo dopo la capitolazione tedesca, annettendo la parte meridionale di Sakhalin e le Kurili, oggi rivendicate dal Giappone. Il trattato sino sovietico di amicizia e alleanza, viene rinnovato da Mao nel febbraio 1950 ed esteso alla mutua assistenza. Pur riluttante, in novembre Stalin concede il decisivo supporto aereo sovietico all’intervento cinese nella guerra di Corea che ricaccia MacArthur dallo Yalu al 38° parallelo.

Lo strappo

Ma il nuovo corso sovietico inaugurato nel 1956, con la destalinizzazione e la coesistenza pacifica, determina lo “strappo” tra i due imperi, in crescente competizione per la leadership ideologica e geopolitica del comunismo e del Terzo Mondo, accompagnata negli anni Sessanta da aspre dispute di frontiera (sostegno sovietico ai musulmani del Xinjiang, contestazione cinese dei trattati “iniqui” e rivendicazioni nel Pamir e sull’Ussuri, e contro l’India pro-sovietica) e da venti di guerra (test nucleare cinese di Lop Nor, combattimenti nell’isola di Damanskij/Zhēnbăo).

I vecchi guerrieri della Guerra fredda seguono il criterio romano di dividere i nemici. Churchill chiude nel 1957 il suo ultimo governo silurando il China differential (il vincolo strategico al commercio occidentale con la Cina, analogo al CoCom antisovietico). Nel 1972, convinto da Kissinger, Nixon apre alla Cina. Nel 1979, allo spirare del trattato sino sovietico, Deng Xiaoping condiziona il rinnovo al ritiro sovietico dall’Afghanistan e delle truppe dalla frontiera comune e dalla Mongolia e alla cessazione del sostegno all’invasione vietnamita della Cambogia; e, al rifiuto di Mosca, “punisce” Hanoi con una disastrosa spedizione militare.

L’attuale asse sino russo

Talks between Soviet Russian Leader Mikhail Gorbachev and China's Communist leader Deng Xiaoping in May 1989 (World History Archive / AGF)

La cooperazione strategica russo cinese, ripresa nel 1991 dopo il crollo dell’Urss e intensificata dopo il 2001, è oggi fortemente messa in questione dal controproducente azzardo russo in Ucraina e dal monito americano alla Cina in caso di sostegno militare o finanziario alla Russia.

Sulla portata e la solidità di questo complesso sistema di accordi bilaterali, estesi anche ad altri stati dell’Asia Centrale, incluse potenze rivali come Pakistan e India, le valutazioni occidentali sono state sempre ambivalenti. Nel primo ventennio ha largamente prevalso lo scetticismo, se non addirittura l’ironia, mentre in seguito si è fatto sempre più strada il timore – peraltro ancora largamente minoritario – per cui la cooperazione economica, di sicurezza e militare stesse evolvendo verso un vero e proprio asse geopolitico “eurasiatico”, necessitato dalla comune difesa contro la doppia offensiva economico finanziaria e psicologica occidentale. E incoraggiato dagli effetti controproducenti degli interventi a guida americana in Asia centrale, medio oriente e Nordafrica che hanno destabilizzato il settore centrale del “contenimento” occidentale dell’Eurasia, favorendo il riemergere delle storiche ambizioni imperiali russe, turche e cinesi, esacerbate dal riscatto delle umiliazioni subite, e mettendo a rischio gli interessi occidentali nella stessa retrovia africana. Questa è, a mio avviso, la traduzione in termini geostrategici della “«Terza guerra mondiale a pezzi» evocata da papa Francesco. 

La risposta astrattamente possibile, forse in pectore ancora sperata dai vecchi alleati dell’Europa continentale, avrebbe potuto essere di affidarsi agli effetti a lungo termine della globalizzazione, non solo riguardo alla sicurezza internazionale ma anche all’espansione della democrazia e alla promozione dei diritti umani. Questa, in definitiva, è stata la strategia occidentale durante le ultime due fasi della Guerra fredda, con la distensione e gli accordi di Helsinki che hanno minato il sistema socioeconomico sovietico e la contemporanea apertura alla Cina che ha favorito l’espansione globale dei modelli capitalisti e di una sia pur limitata liberalizzazione sociale.

Purtroppo, però, l’esperienza storica della “prima globalizzazione” del 1870-1914 ha contraddetto il dogma della “pace liberale” basata sul commercio, e lo stesso si è verificato anche nella seconda, archiviando le illusioni del post-Guerra fredda sui “dividendi della pace” e sulla “fine della storia”. I rapidi mutamenti – reali o percepiti – negli equilibri di potenza determinati dal mercato sembrano produrre fatalmente una spirale di guerra. E l’arsenale di guerra economica, finanziaria e legale di cui oggi dispone l’occidente ha realmente ridotto la deterrenza nucleare a una “tigre di carta”, come emerge oggi dall’impasse russo nella vicenda ucraina.

Archiviato l’infelice ventennio della “lunga guerra” al terrore, gli Stati Uniti hanno potuto affrontare la paziente strategia cinese di conquista commerciale dell’Europa e di sfruttamento delle risorse africane. Negli ultimi anni hanno avuto quindi spazio crescente nel dibattito strategico americano le narrazioni distopiche sul “declino e caduta” basate sulla discutibile analogia tra “impero americano” e “impero romano” e sulla “trappola di Tucidide”, ennesima lezione pseudostorica tratta dalla Guerra del Peloponneso. Entrambe convergenti nel predire l’inevitabile scontro finale tra America e Cina (dimenticando che tra Atene e Sparta a godere sono state Persia e Macedonia e che oggi il miglior candidato a quel ruolo sarebbe l’India). Nel quadro della politica anticinese (dal “Perno all’Asia” al “Dialogo quadrilaterale di sicurezza” con India, Australia e Giappone) è emersa la necessità di provocare il “decoupling” (separazione non consensuale) della coppia Russia-Cina.

Dividere russi e cinesi

Sul modo, c’erano due opzioni. Da un lato quella tacitamente sperata dai vecchi alleati dell’Europa continentale, viziati dalla libertà di manovra geoeconomica di cui godevano durante la belle époque della Guerra fredda; e cioè reintegrare la Russia postsovietica e neo-zarista nella storia europea, riconoscendole il rango formale di potenza globale e chiudendo la questione ucraina, per volgerla contro la Cina. Opzione che sembrava aver avuto una chance con la sorprendente vittoria di Trump, ma che è stata subito preclusa non solo dal cosiddetto (in Italia) Russiagate e dall’opposizione del deep state americano, della Gran Bretagna e dei nuovi alleati europei, ma anche dalla solidarietà ideologica delle stesse classi dirigenti dei vecchi alleati continentali col partito democratico americano.

L’altra opzione, l’unica realmente sul tappeto e la più pagante non solo nella prospettiva americana, ma anche in quella della Gran Bretagna post-Brexit, era invece di neutralizzare il partner più debole completando il decoupling tra Russia ed Europa già avviato nel 2014. Opzione fino a ieri difficile, come dimostra la vicenda del Nordstream (il gasdotto diretto tra Russia e Germania), difeso strenuamente dalla cancelliera Merkel, ma che è stata improvvisamente imposta dall’aggressione russa all’Ucraina.

Qui finisce il ruolo dello storico, che ho fin troppo rischiosamente esteso. I fatti e i retroscena su cui possiamo oggi riflettere sono ignoti e, per quanto ci si possa onestamente sforzare di essere obiettivi, le interpretazioni sono inevitabilmente viziate dai propri pregiudizi oltre che dai continui sviluppi degli eventi.

Quel che forse oggi è possibile è indicare almeno ciò che sappiamo di non sapere. Basteranno il monito di Biden a Xi Jinping e un eventuale rapido collasso delle forze di invasione russe a produrre il decoupling tra la seconda economia del mondo e il paese più esteso che garantisce alla prima una immensa riserva di materie prime oltre alla percorribilità della rotta commerciale artica, più corta e meno controllabile delle rotte atlantica e mediterranea? In quale misura il Partenariato Transatlantico su Commercio e Investimenti (Ttip) rilanciato da Biden nella recente visita in Europa, è compatibile con la salvaguardia dell’interesse cinese a mantenere il volume di commercio con l’Europa, e quindi con la convenienza della Cina a isolare la Russia?

L’isolamento internazionale dell’aggressore chiesto dall’occidente non è stato unanime. Paesi che rappresentano 4 miliardi di persone non si sono, almeno per ora, associati alle sanzioni. Di sicuro occorrerà lavorare ancora molto, affinché il blocco della Russia e il Ttip non si risolvano in un mero arroccamento dell’occidente che segnerebbe la fine della globalizzazione e ci avvicinerebbe all’impensabile.                  

                        

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