Lo sciopero della fame di Alaa Abdel Fattah, blogger e simbolo della rivoluzione egiziana, arriva anche in Italia.

L’attivista ha smesso di mangiare da 58 giorni, in protesta contro le condizioni di detenzione, definite «disumane» dalla sua famiglia, a cui è sottoposto dal 2019. Un gesto estremo, che dopo l’appello fatto da diversi parlamentari nel Regno Unito e negli Stati Uniti sta mobilitando anche la società civile italiana.

Ieri Riccardo Noury, portavoce, di Amnesty International Italia, ha dato il via a uno sciopero a staffetta annunciato alcuni giorni fa su Twitter.

«Abbiamo pensato che un piccolo gesto di solidarietà, ossia stare almeno un giorno nelle condizioni di Alaa, sarebbe servito a perorare la sua causa», dice Noury.

Le adesioni da parte di cittadini e associazioni iniziano ad arrivare mentre la madre dell’attivista, Laila Soueif, ha parlato mercoledì scorso in videoconferenza al Comitato permanente sui diritti umani della Camera e ha denunciato un accanimento contro di lui da parte delle autorità carcerarie, nel penitenziario di Tora al Cairo.

Per più due anni, infatti, Alaa non ha avuto diritto a carta e penna, libri, ora d’aria e nemmeno a un orologio.

Le condizioni in carcere 

Dall’inizio dello sciopero della fame, il regime egiziano ha fatto alcune piccole concessioni. Il 18 maggio Alaa è stato trasferito dal penitenziario di Tora al carcere di Wadi el Natrun, mentre giovedì scorso le autorità carcerarie gli hanno permesso di ricevere alcuni libri e le sue amate copie di Topolino portate dalla madre.

Ma resta ancora senza l’ora d’aria e in una cella, sorvegliata 24 ore su 24, in cui non è possibile spegnere la luce.

«È passato dalla repressione in stile medievale del carcere di Tora a una repressione più moderna. Ci sono le telecamere che lo controllano tutto il giorno e ha un sistema di comunicazione diretto con le guardie che al momento sembrano essere persino gentili», dice con una punta di sarcasmo la madre dell’attivista.

«Ci ha scritto una lunga lettera, dice che al momento continua lo sciopero. Beve solo acqua e latte con un po’ di zucchero, sono circa 100 calorie al giorno», continua.

«Non si fermerà sino a quando non otterrà tutte le sue richieste, compreso l’incontro con le autorità consolari britanniche».

La diplomazia di Londra è coinvolta in maniera diretta nel caso dallo scorso aprile. Dieci giorni dopo l’inizio del digiuno volontario, infatti, l’attivista ha preso la cittadinanza del Regno Unito proprio grazie alla madre, nata a Londra nel 1956.

Pressione internazionale

Il nuovo passaporto è l’ennesimo tentativo dell’attivista di dare una svolta alla sua vicenda giudiziaria che lo ha portato a trascorrere sette anni di carcere negli ultimi suoi otto anni di vita.

L’ultimo arresto risale al 2019, poi il 20 dicembre del 2021 è arrivata la condanna a 5 anni di carcere per diffusione di notizie false dal tribunale per i reati minori di New Cairo.

Una sentenza inappellabile perché emessa secondo il rito previsto dallo stato di emergenza. Secondo il triste copione che il sistema giudiziario egiziano segue sulle decine di migliaia di detenuti di coscienza, chi riceve una pena definitiva non ha quasi alcuna via di uscita se non quella di chiedere l’annullamento del processo.

Così, negli ultimi anni, alcuni attivisti con doppia cittadinanza, sfruttando un decreto presidenziale del 2014, hanno ritrovato la libertà rinunciando al passaporto egiziano. Se Alaa vorrà seguire questa strada non è ancora certo. Quello che chiede ora, insieme alla sua famiglia, è pressione diplomatica.

«Sono convinta che la mobilitazione dei paesi occidentali abbia giocato un ruolo fondamentale nel far trasferire mio figlio in un altro penitenziario ma ora serve qualcosa di più», dice Soueif.

«Egitto e Gran Bretagna sono in ottimi rapporti, quindi dovremmo aspettarci che le richieste di Londra su mio figlio vengano accettate dal governo del Cairo».

Che il regime egiziano, impegnato da diversi mesi in una nuova operazione di recupero della credibilità sui diritti umani, stia cercando di dare un segnale alla comunità internazionale è un dato di fatto.

Ora cerca di farlo anche con gli attivisti di punta della rivoluzione contro i quali, sino a ora, non aveva mai allentato la morsa della repressione. Soprattutto con Alaa, definito ormai il Gramsci d’Egitto, fonte di ispirazione per una generazione di attivisti, non solo egiziani.

Il suo libro, Non siete stati ancora sconfitti, una raccolta di scritti dal carcere, è stato pubblicato in Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti e presto arriverà in Germania.

«Il regime egiziano ha paura di Alaa. Nonostante sia costantemente privato della sua libertà personale, da più di dieci anni trasmette messaggi di cambiamento sulla democrazia e sui diritti umani», spiega Noury.

«Credo soprattutto che i palazzi del potere del Cairo stiano iniziando a temere la mobilitazione che c’è intorno a lui. E questo sta succedendo grazie anche al suo libro, che sta arrivando nei luoghi di cultura più importanti del mondo, e sta facendo diventare il suo caso una campagna globale».

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