La capitolazione di Miami conferma la crisi Maga. Ma Trump si autoincensa

La democratica Eileen Higgins è stata eletta sindaca di Miami, riportando la sinistra alla guida della città per la prima volta dal 1997. Non è soltanto un risultato locale. L’elezione si inserisce in una sequenza di segnali politici che negli ultimi mesi hanno dato prova delle difficoltà di Donald Trump. Dopo la vittoria del democratico-socialista Zohran Mamdani a New York e l’elezione di due governatrici di sinistra in New Jersey e Virginia, la capitolazione della destra a Miami ha un valore simbolico anche più elevato, perché arriva nel cuore della Florida, lo stato che il presidente considera la sua seconda casa e il modello cui ha cercato di conformare Washington nella sua seconda amministrazione. «Leader europei deboli»: Trump infierisce sull’Ue, che si lascia bullizzare Il laboratorio La Florida è diventata il laboratorio politico di Trump. Lo stato è da sempre un luogo di clientele e corruzione, e da lì provengono alcune delle figure chiave della sua amministrazione, come la capa di gabinetto, Susie Wiles, la procuratrice generale, Pam Bondi, e il segretario di Stato, Marco Rubio. L’idea era fare di Washington una proiezione federale della Florida, uno stato trasformato in fortezza repubblicana, dove la destra vince, governa e detta l’agenda culturale senza troppe resistenze. L’elezione di Higgins interrompe questa narrazione. Miami è il volto internazionale della Florida, e il successo di una candidata democratica in un contesto che Trump considerava ormai blindato segnala che la stabilizzazione elettorale della destra non è né completa né irreversibile. Anzi, suggerisce che le fratture sociali ed economiche riemergono proprio laddove sembravano riassorbite dal trumpismo. Miami aggiunge un elemento simbolico importante, perché il dissenso non cresce soltanto nei bastioni progressisti tradizionali, ma si manifesta anche nei contesti che Trump considera come prove del suo successo. A questi segni di fragilità vanno aggiunte le spaccature che stanno lacerando il partito repubblicano e l’intera galassia Maga. La deputata Marjorie Taylor Greene – capostipite di tutte le figure ultratrumpiane – ha deciso di abbandonare la Camera dopo mesi di dissensi con la Casa Bianca su diversi temi, dai file su Epstein alla politica estera, e nei gruppi parlamentari repubblicani si sta consumando uno scontro fra una parte della base e i vertici del partito. La tregua di Trump era un castello di carte: riprese le ostilità tra Cambogia e Thailandia Parlare d’altro Di fronte a questo quadro, Trump fa quello che fa sempre: cerca di cambiare discorso. Mercoledì ha pubblicato su Truth un lungo e furibondo messaggio che ripropone il racconto epico di sé stesso e il risentimento verso tutti gli altri. Nel post, il presidente sostiene di non aver mai lavorato così duramente come ora, di avere orari più lunghi di qualunque predecessore e risultati tra i migliori della storia americana. «Ho fermato otto guerre, salvando molti milioni di vite, ho creato la più grande economia nella storia del nostro paese, ho riportato gli affari negli Stati Uniti a livelli mai visti prima, ho ricostruito l’esercito, dato vita al più grande taglio fiscale e di regolamentazioni di sempre, ho chiuso il nostro confine meridionale, molto aperto e pericoloso, mentre le amministrazioni precedenti non sono state capaci di farlo, e ho creato una “aura” attorno agli Stati Uniti che ha portato tutti gli altri paesi a rispettarci come non era mai accaduto», ha scritto Trump soltanto nella prima parte del messaggio. Merz alza la testa di fronte a Trump, il rapporto ambivalente del cancelliere atlantista con l’inaffidabile tycoon La particolare foga presidenziale si spiega anche con il disappunto per le voci sulla sua salute. Racconta di sottoporsi volontariamente a lunghissimi e noiosi esami medici, supervisionati dai migliori dottori, che gli avrebbero assegnato voti perfetti, risultati definiti addirittura eccezionali. Aggiunge di aver sostenuto tre volte un test cognitivo, superandolo brillantemente davanti a schiere di esperti, mentre altri non sarebbero in grado nemmeno di completarlo. Secondo il presidente, le osservazioni sul suo presunto declino sarebbero costruite ad arte dai soliti media bugiardi. Anzi, arrivano a configurarsi come un atto sedizioso, se non addirittura traditore, in particolare del New York Times, definito un nemico del popolo, una fonte bugiarda e corrotta che farebbe un favore al paese se smettesse di esistere. È un’esternazione scomposta anche per gli standard trumpiani. Di fronte agli inciampi politici, Trump torna a rifugiarsi nella costruzione della leggenda personale, nella contrapposizione totale con i media e nell’idea di un presidente assediato e infaticabile. L’elezione di Higgins a Miami non cambia di per sé gli equilibri nazionali. Ma, come gli altri segnali recenti, incrina la narrazione di un’America definitivamente trumpizzata. Sovranista, imperialista, suprematista: la dottrina “eurofobica” di Trump