In questi anni di crisi multilivello abbiamo dovuto imparare numerosi nuovi anglicismi. Uno di questi è reshoring. Letteralmente significa “rilocalizzare”, ovvero “riportare a casa” le industrie volate all’estero negli anni di iper-globalizzazione, all’inseguimento del differenziale tra il costo di produzione nei paesi OCSE e quello nei paesi in via di sviluppo.

Prima del Covid le voci in favore del reshoring ricorrevano, soprattutto in America, principalmente in ambito politico-elettorale. Si legavano quasi sempre a promesse, più o meno realistiche, di lavoro in aree depresse come la rust belt (ancora riecheggia il “jobs! jobs! jobs!”, urlato in Pennsylvania da Donald Trump come ricetta per rifare grande l’America). 

Al picco della pandemia il dibattito sul reshoring si è invece rianimato intorno ai problemi sperimentati dalla logistica delle filiere durante le quarantene. Il termine è così rimbalzato dentro l’agenda di Joe Biden che gli ha dato una connotazione in cui le ragioni dell'economia convivono e anzi forse seguono quelle della geopolitica, in particolare per quanto riguarda quattro settori altamente strategici: la farmaceutica, la mobilità elettrica, la lavorazione delle terre rare e, quello che più qui ci interessa qui, la produzione di chip. 

Un settore cruciale

Ancora negli Novanta la produzione di chip negli USA si aggirava intorno al 40% del totale mondiale. Oggi parliamo del 12%. La riduzione si spiega in molti modi: non ultimo il fatto che, stando a un recente report di Goldman Sachs, produrre un chip negli Stati Uniti costa circa il 44% in più che a Taiwan, dove ha sede TSMC una delle più avanzate fonderie di semiconduttori al mondo, già nelle supply chain di marchi come Apple, Google e Amazon.

Nel nuovo mondo post-pandemico l’efficienza economica tuttavia non basta più a giustificare i rischi rappresentati dalla dipendenza dall’estero per le tecnologie cruciali. Specie se consideriamo che i chip non sono soltanto componenti fondamentali dei dispositivi con cui ogni giorno lavoriamo ma, alla frontiera della loro innovazione, sono ormai pedine decisive nell’avanzamento di tecnologie militari e civili con un elevatissimo potenziale di trasformazione. Su tutte le intelligenze artificiali e il computer quantistico.

È questa la ratio dietro il CHIPS and Science Act con cui, ad agosto, Biden ha creato un fondo da 52,7 miliardi a sostegno della produzione americana di microchip. L’intento è convincere le aziende di chip, americane e non solo, a localizzare le loro attività negli Stati Uniti, il tutto attraverso incentivi tali da colmare il divario con gli inferiori costi di produzione offerti da paesi come appunto Taiwan, Cina e Corea del Sud, i cui governi da anni sostengono le proprie fab (termine con cui si definiscono le fonderie di semiconduttori) con notevoli sussidi.
La decisione con cui l’amministrazione Biden sì è spesa a sostengo del CHIPS ACT è stata notevole e, anche solo a livello simbolico, ha già sortito diversi effetti. Vediamone alcuni.

Ad agosto, poco dopo il passaggio dell’atto al congresso, Qualcomm ha annunciato un investimento da 4.2 miliardi in una fab a Malta, nello stato di New York, dove punta a raddoppiare la sua produzione di chip “americani” con un’attenzione particolare per le applicazioni 5G e per il campo dell’automotive. A ottobre IBM ha reso pubblica l’intenzione di destinare 20 miliardi di dollari nei prossimi anni alla produzione di chip per server e informatica quantistica in un cluster di impianti nella valle dell’Hudson. Negli stessi giorni Micron ha presentato invece una prima tranche d’investimenti da 10 miliardi per una nuova megafab a Clay (sempre Stato di New York) che punta a diventare la più grande sul territorio americano. Intel, già leader nel settore, ha infine confermato piani per complessivi 170 miliardi di dollari in diverse location tra Stati Uniti ed Europa nel prossimo decennio. 

La notizia che ha fatto più clamore, data la notorietà del marchio in oggetto, tuttavia inevitabilmente è stata un’altra. Ovvero che, a partire dal 2024, Apple intende acquistare una quota dei propri chip da una nuova fab di TSMC in Arizona. Un impianto, ancora in fase di ultimazione, per il quale la stessa Apple si è spesa notevolmente a livello di lobbismo.
Tuttavia proprio intorno a questa cooperazione tra TSMC e Apple si sono addensati alcuni scetticismi che catturano perplessità più generali intorno al tema. Secondo una recente analisi di Bloomberg, la mossa di Apple sarebbe infatti più uno show di pubbliche relazione che altro – un occasione per far parlare di “american iPhone” – e la quota di chip che Apple acquisterà in effetti dall’Arizona resterà in futuro relativamente bassa.  


Il paradosso di Zenone dei chip

Senza voler eccedere in determinismo è probabile che Bloomberg non abbia tutti i torti. La fabbrica in costruzione nell’Arizona pare infatti predisposta solo alla produzione di chip da 5 nm (nanomillimetri) laddove si prevede che, per effetto della legge di Moore, Apple nel 2024 sarà già passata ad utilizzare processori da 3 nm. Ancor prima di nascere la nuova fab rischia dunque di essere già stata sorpassata dalla nuova frontiera della micro-tecnologia d’eccellenza. Andrebbe perciò investito ulteriore tempo e denaro per mettersi in pari, col rischio di ritrovarsi poi di nuovo indietro.

È una sorta di riedizione del paradosso di Zenone che rappresenta il più tipico problema del reshoring tecnologico, specie quando si tratta di processi ad elevata precisione e intensità di ricerca. Secondo numerosi analisti, la realtà è infatti che prodotti, come i moderni chip, nati e cresciuti nel contesto altamente globalizzato e a elevata specializzazione di questi ultimi decenni si prestano poco alla rilocalizzazione. Inevitabilmente intorno a essi accumulano costi, ritardi e spese che più che in avanzamenti tecnologici si traducono in esiti sub-ottimali mentre la concorrenza, già di partenza in vantaggio, alza sempre di più l’asticella della competizione. Nell’inseguimento di orizzonti che si allontanano si rischia insomma non solo di bruciare un sacco di soldi ma di rimanere concretamente indietro rispetto allo stato dell’arte della tecnologia.
A bollare del resto il reshoring dei semiconduttori più avanzati in America come una potenziale “fatica di Sisifo”, è stato nientemeno che Morris Chang – il “padrino del chip”, come lo definì il New York Times nel Duemila – l'ormai semi-mitologico 91enne fondatore di TSMC. Secondo il quale il raggiungimento dell’obiettivo si rivelerà per gli Stati Uniti un processo non solo “molto più costoso e lento del previsto” ma anche con prospettive decisamente incerte.

Non è solo una questione di ricerca e sviluppo ma anche di qualità e quantità del capitale umano. Disegnare e produrre chip, per non parlare di innovarli, è un processo che richiede competenze altamente specializzate. Competenze che al momento si trovano soprattutto in Asia e che l’America (come del resto l’Europa) ha necessità di produrre, riqualificando o formando ingegneri, programmatori e, in generale, personale in grado di lavorare lungo tutta la filiera. Anche per questo una quota consistente del CHIPS Act, circa 13 miliardi, riguarda il campo dell’istruzione tecnica avanzata. Anche su questo punto però non mancano gli scettici. I quali fanno notare che una simile cifra è quanto investono in ricerca all’incirca in un anno i leader del settore, da TSMC a Samsung. Di nuovo siamo dalle parti del paradosso di Zenone (il cui interesse per gli spazi discreti ha peraltro molto in comune con la fisica dei chip).

C’è poi un altro problema che, secondo alcuni non è da sottovalutare. E ovvero che, come tutte le “corse all’oro” fin dalla notte dei tempi del capitalismo anche quella ai chip alla fine si gonfi fino a diventare una bolla. Con gli Stati che si dissanguano per fornire sussidi, le aziende che ben felici di riceverli si riempiono la pancia, un aumento incontrollato della produzione e, inevitabile all’orizzonte, il crollo del prezzo e della qualità dei chip e dunque del mercato con un enorme sperpero di denaro, risorse, tempo e tecnologia. 

© Riproduzione riservata