Il partito repubblicano, dopo la sconfitta del 2020 culminata con l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021, ha pensato di doversi reinventare per qualche giorno. Basta con Donald Trump, basta con il trumpismo, ormai un brand tossico.

Invece, è bastato che l’ex presidente venisse assolto nel suo secondo processo di impeachment, come voluto dal leader repubblicano al Senato Mitch McConnell, per andare rapidamente avanti, concentrandosi sul contrasto all’amministrazione Biden.

Il vuoto di idee è stato subito riempito nuovamente da Donald Trump, tornato prepotentemente sulla scena, che ha rincarato la dose rispetto a prima, rafforzando la narrazione sulle elezioni rubate per mancanza d’integrità.

Che cosa questo voglia dire non è chiaro, ma il significato recondito colto dai sostenitori trumpisti è molto semplice: votano troppe persone sbagliate.

In quest’ottica si leggono le leggi restrittive sul voto approvate in diversi stati, tra cui la Georgia del governatore Brian Kemp, nominalmente uno dei più antitrumpiani, dato che proprio Kemp, insieme al suo segretario di Stato Brad Raffensperger, nel 2020 aveva respinto le pressioni dell’allora presidente per non certificare il voto.

Il partito allineato

Il nocciolo di questa strategia è condiviso anche dall’intero partito repubblicano. Quello su cui però non si poteva concordare è che per le elezioni di metà mandato di martedì sarebbero stati scelti in gran parte dei candidati ultratrumpiani, non soltanto dal punto di vista ideologico.

Cos’altro hanno in comune candidati al Senato Herschel Walker, Mehmet Oz, Blake Masters e J.D. Vance? Sono tutte persone senza un background politico di alcun tipo.

L’unica cosa che hanno ampiamente dimostrato è che sono totalmente fedeli a Trump, anche qualora questi cambiasse idea. Meglio così, a differenza di altri come il già citato Kemp o Ron DeSantis non corrono il rischio di “tradire” i desiderata dell’ex presidente.

La cosa sorprendente è che ad aiutare questa trumpizzazione sono stati proprio alcuni strateghi democratici. Già nel 2015 l’allora candidata alle presidenziali del 2016 Hillary Clinton aiutò segretamente alle primarie le sorti di Trump, ritenuto meno eleggibile dall’elettorato generale. Si sa com’è andata a finire.

Eppure, anche quest’anno è successa la stessa cosa: lo ha denunciato lo scorso agosto uno dei meno trumpiani del Congresso uscente, il deputato del Michigan Peter Meijer, con un post sul portale Commons Sense, diretto dall’ex giornalista del New York Times Bari Weiss.

L’accusa è estremamente diretta: i democratici hanno favorito la vittoria del suo avversario John Gibbs, un cospirazionista antisemita e ultratrumpiano, perché ritenuto meno competitivo alle elezioni generali.

Adesso, secondo i sondaggi, John Gibbs potrebbe vincere. Non c’è però soltanto questa strategia inerziale per i repubblicani: il senatore della Florida Rick Scott lo scorso marzo aveva annunciato un programma in 12 punti per “salvare l’America”, che però aveva al proprio interno molti punti controversi, tra cui un allargamento della fascia contributiva verso gli americani più poveri.

Meglio seguire la saggezza del leader al Senato Mitch McConnell: attaccare Joe Biden e le sue politiche di “sinistra radicale”.

In questo modo i repubblicani cercano di combinare sia una necessaria vaghezza per allargare quanto più possibile la base anche a quei moderati che hanno scelto Joe Biden nel 2020, sia un messaggio mobilitatore per la base trumpiana.

Il punto debole 

Qual è quindi il punto debole di questa strategia? Probabilmente la presenza stessa di Trump, al quale interessa ben poco delle fortune generali dei repubblicani.

Altrimenti il 5 novembre non avrebbe passato parte del suo comizio a sostegno del candidato Oz in Pennsylvania ad attaccare il suo potenziale avversario Ron DeSantis, chiamato con il nomignolo “Ron DeSanctimonious”, Ron l’ipocrita, letteralmente.

Una mossa che ha fatto arrabbiare numerosi commentatori conservatori, tra cui un anonimo finanziatore repubblicano che ha affermato con testuali parole: «Gli unici due str…zi che attaccano altri repubblicani a tre giorni dal voto sono Liz Cheney e Donald Trump».

E dire che i miliardari, in questo ciclo elettorale, non hanno lesinato il loro sostegno. A cominciare dal decano dei donatori, Charles Koch, che ha donato in due forme: 20 milioni tramite le Koch Industries versate al suo SuperPac Americans for Prosperity, mentre altri 15 sono stati versati attraverso la sua noprofit Stand Together.

I repubblicani hanno scelto anche altri due veicoli per raccogliere fondi in pieno anonimato, il comitato d’azione politica One Nation, legato alla leadership del Senato, che ha 53 milioni in cassa, mentre il suo corrispettivo per la Camera American Action Network ne ha 47.

Sappiamo però dai dati della Commissione elettorale federale che anche alcuni volti noti hanno deciso di versare apertamente dei fondi: Stephen Schwartzman, amministratore delegato del fondo d’investimento Blackstone,  ha donato complessivamente 32 milioni di dollari.

I coniugi Elizabeth e Richard Uihlein, proprietari dell’operatore della logistica Uline, hanno staccato assegni per 70 milioni di dollari. Soprattutto c’è Peter Thiel, magnate della Silicon Valley e fondatore di Paypal, che ha versato 30 milioni di dollari e ha appoggiato direttamente due candidati ideali per Trump, i già citati Blake Masters in Arizona e J.D. Vance in Ohio.

Anche in questo caso, il problema è rappresentato da Trump: in una raccolta fondi via mail in favore di Masters lanciata lo scorso 24 ottobre, l’ex presidente avrebbe incassato il 99 per cento delle donazioni ricevute.

Fratture

Da parte repubblicana c’è malumore per questo atteggiamento: non è un caso che il 6 novembre, in un’intervista alla Cnn, la presidente del Comitato nazionale repubblicano Ronna McDaniel abbia affermato che il partito non potrà più pagare le spese legali dell’ex presidente se questo deciderà di lanciare la sua campagna elettorale per le primarie.

Un’ostilità che coinvolge anche McConnell: il 3 novembre in un’intervista radiofonica Trump ha dichiarato che vorrebbe che McConnell venisse “rimosso” dalla leadership del Senato.

Probabilmente non sarà questa guerra intestina a salvare le sorti di un partito democratico ormai visto come l’immagine senile della conservazione dello status quo, come affermato in un recente commento sul New York Times: il trumpismo come forza elettorale funziona ancora. Forse a essere diventato un peso è la figura stessa di Trump.

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