Nel 2019 la Commissione presieduta da Jean-Claude Juncker aveva definito, in maniera un po’ schizofrenica, l’Unione Europea e la Cina come “partner, concorrenti e rivali sistemici” nello stesso tempo. Nella geopolitica post-Covid però quelle che la propaganda cinese ha provato a difendere fino all’ultimo come relazioni “reciprocamente vantaggiose” stanno cedendo il passo alla competizione, al protezionismo, alla sfiducia reciproca.

Tutto ciò è apparso evidente ieri, quando l’esecutivo comunitario ha reso pubbliche le aree al centro della sua strategia di sicurezza economica incentrata sul “de-risking”, nello stesso giorno in cui l’europarlamento ha approvato il regolamento che ha istituito lo Strumento anti-coercizione (Aci). Entrambi non diretti specificamente alla Cina, ma elaborati per fronteggiare quella che viene percepita come la “aggressività” di Pechino, e varati subito dopo l’avvio di un’inchiesta anti-dumping sulle auto elettriche made in China.

La Commissione ha dunque annunciato che condurrà una “valutazione del rischio” in quattro ambiti chiave: semiconduttori avanzati, intelligenza artificiale, tecnologie quantistiche e biotecnologie. A seconda degli esiti di tale ricognizione, l’Unione potrebbe optare per controlli su determinate esportazioni hi-tech verso la Cina e collaborazioni con alleati come Stati Uniti e Australia che hanno messo in campo misure simili.

«L’Europa si sta adattando alle nuove realtà geopolitiche, ponendo fine all’era dell’ingenuità e agendo come una vera potenza geopolitica», ha affermato il commissario europeo per il mercato interno Thierry Breton.

L’obiettivo dell’organismo presieduto da Ursula von der Leyen è duplice: provare ad affrancare l’Ue dalla Cina per quanto riguarda l’importazione di materie prime e manufatti “chiave”; fermare il flusso di tecnologie “critiche” che potrebbero essere utilizzate dall’Esercito popolare di liberazione.

Interessi contraddittori

Tuttavia all’interno dell’Europa a 27 non mancano le contraddizioni: obiettivi diversi tra tra differenti settori industriali, tra i paesi più influenti e all’interno delle loro coalizioni di governo. Ad esempio, sabato scorso Olaf Scholz si è espresso contro l’indagine anti-dumping avviata dalla Commissione sull’importazione di veicoli elettrici made in China e quella che ha stigmatizzato come “via protezionistica”.

«Il modello economico che preferisco è quello della concorrenza globale - ha dichiarato il cancelliere tedesco giovedì scorso durante il Berlin Global Dialogue -. Vogliamo vendere le nostre auto in Europa, Nord America, Giappone, Cina, Africa, Sud America, ovunque, ma questo significa che siamo aperti a portare le auto di altri paesi anche sul mercato tedesco».

Il timore della Germania (che con la Cina, suo principale partner commerciale, nel 2022 ha registrato un interscambio pari a 298 miliardi di euro) è che l’indagine, fortemente voluta dalla Francia, dopo quella con gli Stati Uniti dichiarata da Trump, possa scatenare una trade war anche tra Pechino e Bruxelles, della quale le case automobilistiche tedesche, con i loro colossali investimenti in Cina, potrebbero risultare tra le vittime principali.

Ma l’aumento dei dazi (che potrebbe essere imposto sugli Ev cinesi) è fumo negli occhi anche per la potente lobby SolarPower Europe, che ha bollato l’inchiesta Ue come “reciprocamente dannosa”, esortando le autorità comunitarie, invece che a tassare le importazioni dalla Cina, a sostenere la filiera europea dell’energia solare con gli stessi aiuti di stato che Bruxelles rimprovera a Pechino per il settore dell’automotive.

Rischio guerra commerciale

Lo Anti-Coercion Instrument approvato ieri in via definitiva dal Parlamento con una maggioranza “bulgara” (578 voti favorevoli, 24 contrari e 19 astensioni) si propone invece di «proteggere la sovranità dell’Ue e degli stati membri in un ambiente geopolitico in cui il commercio e gli investimenti sono sempre più utilizzati come armi da potenze straniere».

Come chiarito dal sito ufficiale dell’europarlamento, lo strumento era stato proposto due anni fa, «in risposta alle pressioni economiche esercitate dagli Stati Uniti durante l'amministrazione Trump e ai numerosi scontri tra l’Ue e la Cina».

Pechino fa costantemente ricorso alla “geoeconomia”, utilizza cioè il suo potere economico-commerciale per perseguire obiettivi geopolitici. Per Bruxelles il caso più scottante è quello della piccola Lituania, punita da Pechino con boicottaggi commerciali e sanzioni contro funzionari governativi per aver aperto un’ambasciata di fatto di Taiwan nella capitale Vilnius.

Ora che si è dotata del nuovo meccanismo, «l’Ue potrà adottare contromisure, tra cui l’imposizione di dazi doganali, restrizioni commerciali su beni e servizi, sull’accesso agli appalti pubblici e agli investimenti diretti esteri».

Si tratta di un azzardo, perché da un lato l’Aci rappresenta uno strumento di deterrenza per dissuadere le cosiddette “autocrazie” dall’utilizzare la coercizione economica contro i 27, dall’altro - se utilizzato contro la Cina di Xi Jinping, un gigante nazionalista primo partner commerciale di 120 paesi - potrebbe contribuire a innescare guerre commerciali.

Intanto la Cina si è già mossa, nel luglio scorso, per limitare le sue esportazioni di gallio e germanio, due metalli essenziali per la produzione di semiconduttori. L’Aic potrà essere attivato dalla Commissione, che avrà quattro mesi per indagare sulla presunta coercizione, mentre la decisione se far scattare le contromisure spetterà (a maggioranza qualificata) al Consiglio (cioè ai governi nazionali).

Cosa potrà intendersi per “coercizione” sembra piuttosto discrezionale. Il regolamento approvato si limita infatti a stabilire che l’esecutivo comunitario «dovrebbe tenere conto di criteri qualitativi o quantitativi che aiutino a determinare se il paese terzo interferisce nelle legittime scelte sovrane dell’Unione o di uno stato membro e se la sua azione costituisce una coercizione economica che richiede una risposta dell’Unione».

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