Il piano di Recep Tayyip Erdogan per incoraggiare il ritorno volontario dei rifugiati siriani nel loro paese avrà scarso successo finché in Siria continueranno i combattimenti, le violazioni delle milizie e l’insicurezza generale.

È una delle ragioni del perché Ankara sta pensando a un’offensiva nell’area. A complicare le cose c’è anche il fatto che le turbolenze economiche interne della Turchia potrebbero mettere in discussione il controllo di Ankara sulle aree occupate dall’opposizione armata siriana attorno a Idlib, dove le rivalità tra le fazioni aumentano ogni giorno.

Il problema siriano sta diventando un vero rompicapo per la Turchia che vorrebbe mettervi fine con un colpo decisivo, includendo anche l’Iraq settentrionale. Tre anni fa Erdogan aveva presentato all’Assemblea generale delle Nazioni unite un piano per trasferire due milioni di rifugiati siriani in nuovi insediamenti nel nord della Siria, senza raccogliere sufficiente sostegno internazionale.

Come sempre accade in questo casi, la Turchia ha deciso di fare da sola e circa un mese fa il leader turco ha inaugurato complessi edilizi nel nord della Siria destinati ai rifugiati, precisando che già 500mila siriani sono finora tornati in regioni sicure del paese (esattamente 492.983 al 4 aprile 2022, secondo fonti turche).

Le debolezze turche

Lo sforzo turco è enorme ma la situazione fragile. Con l’indebolirsi della lira turca (moneta utilizzata de facto nell’area siriana controllata dalle milizie filo turche) molti osservatori si domandano se Ankara riuscirà a mantenere la presa sulle aree dove sono riparate le varie opposizioni armate siriane (radunate sotto il cappello formale dell’Esercito nazionale siriano Sna) e al contempo far rientrare i profughi.

La svalutazione monetaria ha acuito le rivalità interne tra milizie alimentando il malcontento. Secondo al Monitor disordini sono in corso in varie cittadine (al-Bab, Jarablus, Azaz, Afrin, Tel Abyad e Ras al-Ain). Allo stesso tempo il deterioramento della situazione potrebbe minare l'autorità finora indiscussa di Hayat Tahrir al-Sham (Hts), il gruppo jihadista dominante a Idlib.

Il pesante schieramento dell’esercito turco fa da scudo alle milizie armate lungo l’autostrada strategica M4, contro cui le forze siriane continuano a premere, con il non troppo coperto appoggio russo. Anche in tempi di guerra in Ucraina queste frizioni non si sono spente del tutto.

L’accordo che ha creato la sacca di Idlib non è mai stato riconosciuto da Damasco che cerca di rimpadronirsi degli assi stradali strategici. L’Hts sembra rimpiangere la decisione di utilizzare la lira turca nelle zone sotto il suo controllo: negli ultimi mesi i prezzi del petrolio e di tutti i prodotti alimentari di base, compreso il pane, sono schizzati verso l’alto proprio ad Azaz, Jarablus, al-Bab, Tell Abyad e Ras al-Ain dove il programma di Ankara prevede la relocation dei profughi.

Nonostante l’impegno pubblico preso dal leader di Hts, Abu Mohammad al-Jolani (ex capo di al Nusra, branca di al-Qaeda), ancora oggi non è chiaro come sarà possibile sovvenzionare gli acquisti di pane ed altri alimenti di base per nutrire tanta gente. La compagnia petrolifera legata all’Hts è tornata a indicizzare i suoi prezzi sul dollaro, abbandonando la lira troppo deprezzata.

Rivalità interne

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Le spaccature tra le fazioni stanno crescendo a causa dell’inflazione indotta dalla svalutazione. Le rivalità interne su imposte e ricavi non sono una novità ma potrebbero aver raggiunto un punto di rottura a tutto vantaggio di Damasco che aspetta di vedere come andrà a finire.

Le continue controversie tra milizie hanno già portato alla fine della cooperazione tra numerosi gruppi armati. L’amministrazione Biden ha imposto sanzioni contro alcuni di essi accusati di gravi violazioni dei diritti umani contro i civili.

In mezzo a tali agitazioni, ad aggravare le tensioni c’è la riduzione di valore dei salari dei miliziani: i pagamenti mensili sono in lire turche (corrispondenti a un valore che varia dai 70 dollari ai cento, a seconda della milizia), il cui potere d’acquisto si va riducendo. 

La questione dei rifugiati e della gestione della fascia a nord della Siria, inclusa la regione di Idlib, è stata al centro di varie strategie di Erdogan e continuamente adattata alle nuove esigenze. Nel 2019 il presidente aveva annunciato un piano per la costruzione di dieci città e 140 villaggi in un’area settentrionale della Siria a est dell’Eufrate fino a una profondità di 32 chilometri, allo scopo di reinsediare un milione di rifugiati.

In una seconda fase un altro milione di rifugiati sarebbe stato reinsediato in una zona più a sud, dall’autostrada M4 a Deir ez-Zor. Il piano mirava a espandere il controllo militare turco lungo il confine nel tentativo di alleviare il carico di profughi della Turchia ma anche di alterare la demografia locale allontanando i curdi.

Proprio per questo i gruppi armati filo Ankara avevano puntato sull’annunciata nuova incursione turca contro la zona curdo-siriana ma il piano è stato posticipato sine die a causa degli stop russo e americano.  Ovviamente molto del futuro dell’area dipende dall’andamento della guerra a Kiev.

Nessuno vuole cedere

Per ora il rinvio dell’offensiva ha frustrato le prospettive di nuovi bottini di guerra, uno dei modi con cui i gruppi si remunerano. Oggi alcune brigate che Ankara ha utilizzato per trasferire miliziani in Libia e nel Nagorno Karabakh, sono accusate di estorsioni, rapimenti e traffici vari.

Per rimettere ordine vi sono state varie operazioni anti droga da parte di milizie concorrenti, creando nell’area un clima di ostilità e disaccordi interni e alimentando ancor più il malcontento pubblico. L'escalation degli scontri in particolare ad Afrin, potrebbe portare ad uno scenario simile a quanto accaduto a Idlib, dove la più radicale Hts ha cacciato manu militari tutti gli altri gruppi, autoproclamandosi come unico governo.

A tali difficili condizioni ci si chiede quanto potrà resistere l’area siriana controllata dalla Turchia, che Ankara considera come se fosse destinata a restare sempre sotto il proprio controllo. Il problema strategico turco è triplice: gestire i rifugiati con una politica di rientro; sostenere le milizie nella zona di Idlib; premere sui curdi del Rojava.

Ankara spera in un nuovo capitolo delle sue relazioni con Damasco basato su una partnership che annulli l’autogoverno curdo nel nord della Siria. Dal canto suo il regime di Assad chiede alla Turchia di porre fine alla sua presenza militare e al sostegno dei ribelli armati nell’area di Idlib.

Per Damasco, Hts e le altre milizie sono jihadisti da annientare senza distinzioni. Uno scambio tra queste due posizioni non è ancora possibile perché né Ankara né la Siria hanno intenzione di cedere. Ma forse qualcuno sta già lavorando a un compromesso che, ovviamente, rende nervose le milizie.

C’è infine da considerare l’opinione pubblica: sia quella turca sia dei rifugiati siriani. Anche se vengono promesse loro condizioni favorevoli, la maggior parte dei siriani in Turchia non è disposta a tornare indietro.

Secondo un sondaggio commissionato dall’Unhcr, la percentuale di siriani che affermano di non voler tornare è aumentato dal 16 per cento del 2017 al 77 per cento del 2020, tanto che il numero di siriani in Turchia è aumentato nel corso degli anni nonostante i rimpatri forzati, attestandosi a 3,7 milioni a fine aprile di quest’anno.

C’è anche da considerare che 754mila bambini siriani sono nati in Turchia, come calcolato dal ministero della Salute turco. Secondo lo stesso sondaggio, il 90 per cento dei turchi crede che i siriani stiano in Turchia per restare ma l’85 per cento degli intervistati desidera che i rifugiati vengano rimandati indietro o confinati nei campi.

Il 98 per cento dei siriani ora vive nei centri urbani della Turchia. A fronte di questa convivenza de facto, solo il sette per cento dei turchi sostiene l’integrazione mentre oltre l’85 per cento è contrario alla concessione della cittadinanza. Tuttavia al 31 marzo di quest’anno circa 201mila siriani sono diventati cittadini turchi e quasi 114mila di loro hanno acquisito il diritto al voto, secondo il ministero dell’Interno.

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