Non c’è solo Moody’s a promuoverci: anche l’indice del Fondo monetario internazionale (Fmi) sul soft power globale – il potere di persuasione e di influenza – vede l’Italia salire al nono posto nel mondo nel 2024. Se si considera che tra i primi otto ci sono Cina e Svizzera (quasi pari con l’Italia), gli altri sono il G7 al completo.

Questo conferma l’attrazione per il nostro paese in termini culturali e politici. Dal momento che tra gli indici considerati c’è anche quello della continuità o stabilità di governo, c’è da scommettere che l’anno prossimo il nostro paese farà un salto in avanti. Il Global Soft Power Index vuole misurare «la capacità di una nazione di influenzare le preferenze e i comportamenti degli attori della scena internazionale attraverso l’attrazione o la persuasione piuttosto che la coercizione», precisa l’Fmi.

Si tratta di una scelta controcorrente in un mondo che vede la rivalutazione della forza e della guerra e la crisi del multilateralismo come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi. Già da qualche anno l’Fmi è cambiato: considerato tra i “cattivi” della globalizzazione almeno fino al volgere del millennio, fautore dei terribili piani di aggiustamento strutturale in Africa e nel sud del mondo, dalla crisi del 2008 ha voltato pagina facendo autocritica.

Nell’attuale crisi del debito estero ad esempio, il Fondo sta dalla parte dei “buoni” e cerca di aiutare i paesi indebitati a negoziare il riscaglionamento del debito o il suo congelamento con i nuovi padroni del mondo: i fondi speculativi occidentali e quelli sovrani asiatici o arabi. Non si tratta di una faccenda semplice perché i privati non hanno alcun interesse a rinegoziare impegni già presi e possono sempre rivolgersi al sistema finanziario, svendendo i debiti dei paesi poveri sul mercato grigio.

Dal canto loro Cina e altri paesi dei Brics o emergenti sono meno sensibili alla situazione finanziaria di stati africani o asiatici che non ripagano in tempo. Nel caso di Pechino le difficoltà di rapporto con i paesi indebitati ha raffreddato gli entusiasmi cinesi per gli investimenti, come ad esempio nel continente africano. Di conseguenza la crisi attuale del debito estero non assomiglia a quella degli anni Novanta del secolo scorso: quella era tra stati mentre oggi tutto è in mano ai privati. È questo l’effetto della globalizzazione che ha spinto anche gli stati più poveri ad emettere bond sul mercato globale piuttosto che rivolgersi ad aiuti pubblici di altri stati. Ora tutto è anonimo e senza possibilità di trattativa politica.

L’aria del tempo è questa e la decisione dell’Fmi di affrontare tematiche (solo apparentemente) più “leggere” come il soft power dimostra che le agenzie multilaterali mantengono pur sempre un atteggiamento diverso dal mercato.

Esiste tuttavia una differenza tra potere di persuasione e potere di influenza. Nel primo caso anche la forza entra nel conto della capacità di persuadere: ci possono essere elementi hard che portano il soft ad essere più “convincente”. Il fatto che Usa e Cina sono ai due primi posti dell’indice significa che in quanto superpotenze “persuadono” più facilmente a seguire il loro modello o decisioni.

L’influenza è un’altra cosa, più astratta e più difficile da definire. Esiste anche la sua versione moral suasion, cioè di diplomazia soft, paziente e senza costrizioni. Influire è un’arte legata alla cultura, allo stile e al modo di vivere. L’Italia ha una nota influenza globale nel vestire, cibo, eleganza, design e via dicendo. Su tale ascendente che viaggia da solo senza nemmeno il bisogno di spingerlo, è possibile costruire una politica per aumentarne il valore e l’accesso. Con un’avvertenza: non si possono usare i classici strumenti “coercitivi secondari” (cioè diversi da quelli politico-militari) come potenza economica o commerciale. Una guerra commerciale non serve (vedi i dazi).

In altre parole è meglio una forza gentile, umanistica e dialogante che non si concentri solo sul proprio benessere nazionale ma su quello globale. In tempi di guerra come i nostri, non è cosa da poco.

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