Il generale Gadi Eisenkot, ex capo di Stato maggiore, membro del gabinetto di guerra, padre di Gal Meir, 25 anni, ucciso a dicembre a Gaza, ha rotto un tabù.

Ha detto che nel breve volgere di pochi mesi bisogna andare alle elezioni poche ore dopo che Benjamin Netanyahu le aveva allontanate al 2025.

Il tabù riguarda la regola del comandante che non si cambia in tempo di guerra. Ma in tempo di guerra, di solito, si è uniti attorno allo scopo comune quando il nemico è alle porte.

Non è il caso attuale in Israele dove le divisioni sono diventate lacerazioni a causa soprattutto di un premier ingestibile sia all'interno sia dagli storici alleati esterni.

La stessa telefonata con Joe Biden, il presidente degli Stati Uniti, se ha rotto un silenzio di settimane non ha risolto alcuna delle controversie anche se non è finita con una cornetta riattaccata in faccia.

Finché c'è guerra c'è speranza è il motto di Netanyahu, che vede nel prolungamento del conflitto con Hamas il salvagente della sua sopravvivenza politica, l'eventuale raggiungimento degli obiettivi che si è posto il trampolino per un impronosticabile settimo mandato.

Eisenkot ha svelato la nudità del re ora che, dopo oltre cento giorni di offensiva, si è dimostrato quanto fosse velleitaria la sua strategia.

Non si potrà distruggere la formazione terrorista che conta ancora su due terzi dei suoi miliziani, i capi più importanti non sono stati stanati dai loro nascondigli, meno della metà dei tunnel, la “metropolitana” della Striscia, sono stati scoperti e distrutti.

Soprattutto c'è contraddizione tra il desiderio di proseguire le ostilità e la liberazione degli ostaggi sequestrati e ancora nelle mani dei rapitori (si calcola siano circa 150). E infine manca un piano per il dopo, se Netanyahu continua ad essere riottosamente contrario all'ipotesi dei due Stati, non vuole l'amministrazione dell'Anp a Gaza, rifiuta anche una forza internazionale di pace.

Il malcontento nei suoi confronti intanto dilaga. Riprendono i cortei massicci e le manifestazioni di piazza dopo la tregua seguita allo choc del 7 ottobre. I sondaggi riflettono il clima.

L'ultimo e più impietoso per Bibi, quello del quotidiano Maariv due giorni fa. Il partito del premier, il Likud, vedrebbe dimezzati i consensi e potrebbe contare su 16 seggi alla Knesset, l'estrema destra razzista di Ben Gvir e Smotrich faticherebbe a raggiungerne 13.

Trionfo per i centristi del generale Benny Gantz e dello stesso Eisenkot con 39 mandati, il partito moderato di Yair Lapid 13.

In totale 71 seggi per l'opposizione 44 per la coalizione ora al governo, residuale la sinistra.

Da quando esiste lo Stato ebraico, nei momenti più complicati quando si trattava di dare una risposta alle aggressioni, le sue leadership hanno sempre agito guidate dalla razionalità, scegliendo i tempi e i modi di una reazione ben ponderata e perciò efficace.

Non così stavolta che al potere c'è un uomo guidato dall'interesse personale, sfuggire ai suoi giudici, proporsi, ancora e ancora, come il salvatore della patria e dominato dall'irrazionale. Un uomo che fugge il confronto e le urne perché lo vedrebbero soccombente.

Un uomo che ha fatto un calcolo: resistere sino alla fine dell'anno, sperare nell'arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump per puntare, davanti all'elettorato, su un rinnovato asse con gli Stati Uniti ridiventati amici.

Si è sostenuto che Benjamin Netanyahu è uno dei principali leader del partito repubblicano americano. Non è solo una battuta.

© Riproduzione riservata