«Il regime saudita è un baluardo contro l’estremismo islamico, la forza politica ed economica più importante dell’area. E ancora: «È grazie a Riad che il mondo islamico non è dominato dagli estremismi». L’ex presidente del Consiglio e leader di Italia viva Matteo Renzi risponde così a una domanda del Corriere della Sera sulla sua partecipazione al board del Fii Institute e all’incontro con il principe Mohammed bin Salman, avvenuto durante la crisi di governo scatenata dal suo partito.

L’affermazione è discutibile. Se è vero che oggi uno dei principali organismi dell’Onu per contrastare il terrorismo (Uncct) lavora a strettissimo contatto col governo saudita, è vero anche che l’impegno, almeno apparente, del regime nel ruolo di «baluardo» in questa attività è relativamente recente. Il problema è il rapporto, complicatissimo, della corona con diverse organizzazioni terroristiche negli anni precedenti.

Risale agli anni Settanta il primo nesso tra Riad e il rilancio dell’islam nel mondo arabo: parte dell’influenza culturale del wahabismo sul resto del mondo musulmano deriva proprio dall’aumento dell’importanza del giro degli affari della Aramco negli anni della crisi petrolifera. Da allora, il generoso flusso di denaro diretto nelle casse di associazioni benefiche e nelle scuole di preghiera di questa variante dell’islam sunnita non si sono mai arrestate.

I finanziatori

Si tratta di realtà che in alcuni casi sono state identificate da diversi enti internazionali come luoghi di proliferazione di estremismo religioso. Un documento dedicato proprio al finanziamento del terrorismo in Arabia Saudita giunto al Congresso americano nel giugno del 2008 cita il dipartimento di Stato americano per indicare i donatori sauditi come «maggior fonte di finanziamento al terrorismo degli ultimi 25 anni». L’elemento centrale di questa delicata questione è proprio che i fondi ricondotti in questi anni a Riad non sono identificabili come finanziamenti da parte del governo saudita, ma piuttosto come provenienti da singoli individui e entità che però sono legate alla corona.

Dallo stesso documento emerge che questo modo di procedere era probabilmente stato applicato anche in altre occasioni, per esempio nel finanziamento di Hamas, classificata dagli Stati Uniti come organizzazione terroristica, a cui erano stati destinati fin dagli anni Novanta fondi stanziati da «donatori privati provenienti dall’Arabia Saudita e da altri paesi arabi». Secondo un rapporto israeliano pubblicato nel 2002, il denaro donato dai finanziatori sauditi arriverebbe anche alle famiglie degli attentatori suicidi palestinesi.

Venivano sempre dall’Arabia Saudita i denari, le armi e i volontari destinati ai combattenti musulmani bosniaci durante la guerra nei Balcani. In quel caso i fondi, centinaia di milioni di dollari, erano forniti direttamente dal principe Salman bin Abdul-Aziz: a nulla valse l’embargo e neanche gli alleati di Washington furono informati. È stato proprio con le indagini degli Stati Uniti che Riad ha dovuto fare i conti dopo l’11 settembre. Quindici dei diciannove attentatori erano sauditi, oltre al capo dell’organizzazione che rivendicò l’attentato, Osama Bin Laden: membro di un’importante famiglia di costruttori, era stato espulso dal paese nel 1992, quando già aveva fondato al Qaida, a causa della sua impostazione critica nei confronti dell’alleanza con gli americani.

Dai documenti finali stesi dalla Commissione d’inchiesta sull’attentato, pubblicati solo pochi anni fa, emerge che almeno due degli attentatori avrebbero avuto contatti con un funzionario di medio livello del ministero degli Esteri saudita. L’operazione “Encore” della polizia federale non ha potuto dimostrare però altri legami con il governo e a oggi i sauditi restano il principale alleato di Washington nella regione.

Cambio di rotta

Arriva con la successione di attentati anche su suolo saudita, soprattutto tra il 2003 e il 2006, il cambio di linea della corona per rivalutare la propria immagine pubblica sulla questione dei finanziamenti poco trasparenti. Risale al 2005 la prima conferenza internazionale sull’antiterrorismo di Riad. Nel 2011 l’Onu si è dotata dell’United Nations Counter Terrorism Center: il presidente del comitato consultivo è il rappresentante permanente dell’Arabia Saudita presso le Nazioni Unite, Abdallah Yahya al Mouallimi, e nel 2014 è arrivata una donazione di 100 milioni di dollari proprio da Riad.

Il paradosso è che, di fronte a questo profilo estremamente attivo delle autorità saudite nella collaborazione con l’Onu, permangono nella lista stilata ogni anno dalla Commissione per le sanzioni nei confronti di enti e individui legati ad al Qaida e allo Stato islamico numerosi cittadini sauditi. Verso Riad rimane scettica anche l’Unione europea. Nel 2019 la commissaria Vera Jourova aveva proposto di inserire l’Arabia Saudita nella lista dei paesi attivi nel riciclaggio di denaro per fini terroristici. Il proposito è però stato bocciato dal Consiglio europeo, dove siedono i leader degli stati membri, all’unanimità (fatta eccezione per il voto di Jourova): come motivazione sono stati addotte ragioni di metodo di valutazione della situazione del paese arabo, ma resta agli atti l’attivismo dell’ambasciatore americano presso l’Unione europea per evitare che il disegno andasse in porto.

Resta poi la questione dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi nel 2018, impossibile da ignorare per le Nazioni unite: risale soltanto a mercoledì scorso la pubblicazione del rapporto di Agnes Callamard, relatore dell’Onu sul caso, in cui si legge che la morte del giornalista è stata «un crimine intenzionale» e che le autorità saudite «hanno permesso, se non diretto, la distruzione delle prove», ma soprattutto che tutto ciò «non avrebbe potuto aver luogo senza che Mohammed bin Salman ne fosse consapevole». Una situazione che richiederebbe un approfondimento proprio sul principe che ha ingaggiato Renzi.

 

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