La presidenza di Joe Biden è già finita. Un’iperbole? È stato il presidente a dire ai democratici al Congresso che «non è un’iperbole dire che le maggioranze di Camera e Senato e la mia presidenza saranno determinate da quello che succede questa settimana», secondo un retroscena del New York Times citatissimo dopo la tremenda sconfitta democratica in Virginia e del successo senza gloria nel New Jersey.

Biden stesso, autorità indiscussa nell’interpretazione delle dinamiche congressuali, legge le elezioni dei governatori come la caparra di una cambiale politica che verrà saldata alle elezioni di midterm del novembre 2022, quando, come accade ogni due anni, si rieleggerà l’intera Camera e un terzo del Senato.

Dire che le prospettive per il Partito democratico sono terribili è un esercizio di understatement.

Non bastano due elezioni locali per seppellire il progetto politico di un presidente che si è insediato alla Casa Bianca meno di dieci mesi fa, ma se queste elezioni si innestano su un quadro politico fragilissimo come quello in cui si muove Biden, ecco che una circostanza elettorale minore diventa la spia di una debolezza strutturale. Il tracollo avviene per mera conseguenza fisiologica.

È il sistema

AP Photo/Susan Walsh

Il mandato del presidente americano è formalmente breve e nei fatti brevissimo. Dura quattro anni, ma il presidente si gioca la possibilità di fare riforme significative nei primi due, quando normalmente il suo partito gode della maggioranza al Congresso.

Le elezioni di midterm solitamente puniscono chi è alla Casa Bianca, si tratta solo di stabilire con quanta severità. Non è un caso: è il sistema che è concepito così.

I Padri fondatori hanno costruito un modello in cui la Camera, che si rinnova per intero ogni due anni, rispecchia le passioni calde e volatili del popolo, mentre il Senato (che rappresenta i singoli stati, a prescindere dalla loro popolazione) è il piatto su cui si posa il lavoro legislativo per farlo raffreddare, secondo la celebre immagine di George Washington. Il problema di Biden è che il Senato è già freddissimo.

I democratici hanno formalmente la maggioranza (strettissima: 50-50, con la vicepresidente Kamala Harris che ha il voto decisivo) ma nella realtà devono combattere contro le resistenze di due senatori del proprio partito, di inclinazione centrista, che hanno già dimezzato il piano da 3.500 miliardi di dollari presentato dalla Casa Bianca per risanare e ricostruire il paese.

Manuali sono stati giustamente scritti sulla leggendaria abilità di Lyndon Johnson, il “master of the Senate”, di negoziare compromessi con gli avversari repubblicani, ma quando è stato eletto presidente al primo mandato per intero, il Partito democratico aveva 66 senatori, abbastanza per passare qualunque legge superando ogni ostruzione, mentre al momento Biden non riesce a mettere insieme nemmeno i cinquanta del suo partito.

Questo stato di debolezza politica ha già dimezzato i sogni del presidente, che all’inizio dell’anno evocava il New Deal di Roosevelt e la Great Society di Johnson, ora si accontenterebbe di non fare la fine di Jimmy Carter. I due disegni di legge mancanti del grandioso piano Build Back Better sono già zoppi e rischiano di essere ulteriormente ridimensionati alla fine del faticosissimo negoziato al Congresso.

Biden si attacca alla bandiera del compromesso come arte nobile, non avendone altre da sventolare, ma il resto della sua agenda è fermo, a partire dall’immigrazione, questione trumpiana per eccellenza che il presidente ha promesso di riformare dopo tanto blaterare di muri.

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L’amministrazione, messa sotto pressione dall’intensificarsi dei flussi di migranti sul confine sud, continua sostanzialmente con la linea dei respingimenti e dei rimpatri. Tutto questo per tacere del disastroso ritiro dall’Afghanistan, del progetto per la transizione ecologica già sbiadito, del piano vaccinale rallentato, degli alleati europei innervositi e dell’innalzamento del salario minimo perso nelle nebbie del Congresso.

Anche i presidenti che nei primi due anni ottengono successi legislativi importanti vengono sconfitti, talvolta malamente, al midterm, e Biden lo sa benissimo. Barack Obama aveva portato a casa il “big fucking deal” della riforma sanitaria nella prima parte del mandato e poi nel 2010 i democratici hanno perso 63 deputati, il peggiore risultato per un presidente in carica dal 1938. Figurarsi cosa può succedere a un presidente che nei primi due anni combina poco.

Il consenso 

Biden guarda i numeri al Congresso e non si sente tanto bene. L’anno prossimo gli basterà perdere dieci deputati per non avere più il controllo della Camera e ci sono almeno 47 seggi che i repubblicani sono convinti, con buone ragioni, di poter conquistare.

Al Senato si decide tutto in tre o quattro stati, ma i democratici non controllano già la camera alta nei fatti, quindi si prospetta soltanto la possibilità di un peggioramento. Poi c’è la questione del consenso. Una flessione dopo la luna di miele è normale, ma il gradimento di Biden è crollato in modo devastante in tempi rapidissimi.

La media dei sondaggi di Real Clear Politics dice che il 42 per cento degli americani approva l’operato del presidente e il 52 lo disapprova. È un calo di 14 punti rispetto al picco raggiunto qualche mese fa: da quando esistono i sondaggi sul gradimento nessun presidente ha avuto un crollo tale. Nemmeno Donald Trump.

La combinazione di questi elementi porta all’iperbole solo apparente di una presidenza già finita, imbrigliata com’è in meccanismi che dipendono in minima parte dalle qualità di leadership del presidente e sono invece agganciati soprattutto a condizioni strutturali.

Certamente Biden immaginava un primo anno molto diverso alla Casa Bianca, ma la convinzione di avere una strada in discesa poggiava sulla premessa discutibile che Trump fosse soltanto un’anomalia del sistema, un malanno passeggero che sarebbe stato superato una volta cacciato l’intruso arancione dalla Casa Bianca.

Sembrava quasi che, in fondo, non facesse davvero la differenza chi o con quale programma politico avrebbe avuto l’incarico di restaurare lo status quo ante.

Come ha scritto qualche tempo fa Frank Bruni sul New York Times, Biden è arrivato alla Casa Bianca al grido di “America is back”, ma in realtà intendeva dire “Trump is gone”, Trump se n’è andato, e la storia tornerà a correre nella direzione giusta una volta rimosso l’inspiegabile ostacolo sulla strada della democrazia. Biden potrebbe dimostrare che questa visione corrisponde alla realtà, se soltanto la sua presidenza non fosse finita.

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