In Alaska i due grandi si sono detti molto, quasi tutto, ma senza rompere. Lo scontro è stato rude. Per bocca del segretario di Stato Tony Blinken e del consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan, Washington non ha risparmiato le accuse, incolpando Pechino di «minacciare la stabilità mondiale», di «genocidio» contro gli uiguri, criticando i cinesi per i fatti preoccupanti e la repressione a Hong Kong, per le minacce a Taiwan, per i cyber attacchi e la coercizione economica contro tanti paesi, per le violazioni dei diritti umani, per la militarizzazione del mar della Cina meridionale, per il furto di proprietà intellettuale digitale, per la poca trasparenza sull’origine del Covid-19 e così via, senza nessuna remora.

A loro volta i cinesi hanno stigmatizzato l’arroganza americana, l’interferenza permanente, le calunnie e soprattutto «le ingerenze americane negli affari interni della Cina», come ha affermato il più alto responsabile del partito comunista cinese per gli affari internazionali, Yang Jiechi. Per gli Stati Uniti non si tratta di questioni interne dal momento che minacciano la pace internazionale.

Le sanzioni

Dal canto suo il ministro degli Esteri di Pechino Wang Yi, ha denunciato le nuove sanzioni americane annunciate proprio alla vigilia dell’incontro, un vero schiaffo da parte americana.

Se qualcuno si aspettava il “reset” delle relazioni tra Usa e Cina dopo l’era Trump, è rimasto deluso. Le due superpotenze non hanno lesinato in franchezza ben sapendo che l’incontro era in parte pubblico, cioè che le loro parole sarebbero state ascoltate da molti se non da tutti. Ed è proprio questo il punto: se c’è una reale differenza con il tempo della guerra fredda è che oggi si parla per lo più davanti alle telecamere e soltanto marginalmente in segreto. La comunicazione è divenuta parte integrante della politica e della diplomazia e in tal modo viene utilizzata. Di conseguenza l’obbligo di trasparenza è stato fatto proprio dalle due parti, che si sono parlate tra di loro ma era come se si rivolgessero anche ad altri.

Da parte americana si è voluto far capire con estrema chiarezza a tutti gli alleati che Washington è di nuovo in pista: non si seguirà più l’isolazionismo dell’epoca Trump ma si consolideranno le alleanze strette nei decenni precedenti e l’America si farà carico delle preoccupazioni dei propri amici. Finita dunque l’“unpredictability”, l’imprevedibilità del tycoon che lasciava molti leader e interi paesi incerti sul da farsi, alla mercé degli umori di Trump e quindi facili prede delle avance cinesi.

Il segnale

Non è un caso che Blinken sia giunto a Anchorage provenendo dal Giappone e dalla Corea, i due più fedeli alleati asiatici (benché non in armonia tra di loro): un segnale alla Cina che gli Usa ci sono e non arretrano. C’è da aggiungere che mentre si svolgeva l’incontro, il segretario americano alla Difesa era in visita a New Delhi per confermare il patto a quattro (Quad) tra indiani, americani, giapponesi e australiani, in funzione dichiaratamente anticinese, irritando grandemente Pechino che ritiene il Quad Indo-pacifico una specie di Nato orientale. In Alaska tutti hanno capito che il neopresidente Biden conferma la fermezza del suo predecessore ma vuole essere più metodico e meno stravagante: intende divenire un riferimento sicuro per i propri alleati. Quindi largo a nuove coalition of the willing, alleanze e framework innovativi con cui ritrovarsi assieme ad altri: Washington punta nuovamente sul proprio soft power politico che da sempre la avvantaggia.

La reazione dei cinesi in Alaska non è stata da meno. Tre lunghe sessioni in cui si è parlato di quasi tutto ma con un tono che anche da parte di Pechino non ha risparmiato aggressività e attacchi, confermando il fossato che divide i due rivali. Dal canto suo, ciò che la Cina ha voluto far sapere al mondo è che non arretrerà ma accetta la sfida con gli Usa a tutto campo, sentendosi ormai paritaria sul piano tecnologico, militare e politico.

Gettando via ogni maschera, la delegazione cinese ha lungamente rimproverato agli Stati Uniti di voler «imporre la loro democrazia al resto del mondo», ufficializzando (se mai ce ne fosse stato bisogno) la preferenza di Pechino per un sistema politico accentratore e autoritario, ritenuto più efficiente e tra l’altro molto in voga di questi tempi. Definitivamente uscita dal proprio isolazionismo, la Cina non si nasconde più ma contrappone un suo modello culturale (potremo dire un suo soft power) a quello occidentale. È la linea di Xi Jinping: Cina non solo fabbrica del mondo ma esempio ispiratore. Per questo le regole invocate dagli americani per segnalare e additare i rischi di instabilità, non sono valide per i cinesi, ce ne vogliono di nuove. Nella posizione di Pechino si sentono riecheggiare le parole del leader russo Vladimir Putin sul fatto che «il liberalismo è morto».

Ciò significa che all’Onu molto presto ci sarà dibattito. Trump ha sempre trascurato se non disprezzato il palazzo di Vetro di New York: ci passava di volata quasi come un obbligo. Gli Stati Uniti di Biden invece ci investiranno parecchio del loro capitale morale e politico. Durante la guerra fredda il diritto internazionale e le regole multilaterali sono state sempre oggetto di controversia tra sovietici e occidentali, con i primi che hanno sempre preferito il principio di «non interferenza negli affari interni», contrapponendolo a quello sull’«autodeterminazione dei popoli» (oggi addirittura rivalutato in «responsabilità di proteggere»). È una vecchia storia che oggi si ripete in forma rinnovata. Oggi Pechino fa sua quella posizione e la rimette al centro del dibattito internazionale. Le ambiguità con cui nei decenni dopo la Seconda guerra mondiale i due principi sono stati utilizzati e spesso manipolati, lascia aperta la porta a ogni evoluzione.

Il valore della flessibilità

In un mondo in cui la questione dell’identità e delle radici è diventata cruciale, vincerà la sfida chi incuterà meno paura ai propri vicini, cioè chi tra le due superpotenze sarà in grado di garantire alleanze a geometria variabile in cui tutti trovino il loro spazio e la propria particolare vocazione. In altre parole: il vantaggio sarà del più flessibile non tanto in termini commerciali ma soprattutto politico-culturali.

Malgrado la sfida reciproca, le due potenze hanno anche voluto segnare dei punti di accordo per dimostrare a tutti la propria ragionevolezza: nessuno dei due vuole passare per quello pronto scatenare un conflitto globale. Cina e Usa hanno dunque deciso di cooperare sulle tematiche multilaterali dell’ambiente e delle pandemie, sullo sviluppo dell’Africa e sui alcuni dossier caldi in cui hanno un comune interesse per la pacificazione. Un tema di cooperazione è anche quello molto delicato della non-proliferazione nucleare, con un occhio che entrambi hanno (in modo inatteso) rivolto verso Mosca, poco recettiva sulla questione negli ultimi anni.

Per Washington la competizione strategica con la Cina è «la più grande sfida geopolitica del XXI secolo», come ha detto il segretario di stato. Dal canto suo Yang Jiechi ha chiesto agli americani di «abbandonare la mentalità da guerra fredda» anche se sembra che fra i due si voglia proprio utilizzare quel vecchio schema: parlare di tutto, constatare il dissenso ma non interrompere. A dimostrazione del fatto che molto di ciò che si è detto ad Anchorage era rivolto agli alleati, Blinken ha affermato davanti ai cinesi di sentire: «Una profonda soddisfazione per il ritorno degli Stati Uniti presso i nostri alleati e partner e una profonda inquietudine per le mosse del vostro governo». Come a dire che tanta enfasi sullo slogan trumpiano «Make America Great Again» alla fin fine si era ritorto contro l’America stessa, facendo crollare la fiducia negli alleati. Per Blinken è stato un modo per assicurare che l’America non ha bisogno di tornare a essere grande perché lo è già. Un messaggio per gli amici ma anche per gli americani: abbiate fiducia, noi ci siamo, sono gli altri a doverci temere. Questa volta i cinesi si sono fatti sorprendere da un’inattesa aggressività americana che a dire il vero nessuno aveva previsto. Per questo è sembrato che gli uomini di Pechino fossero sulla difensiva. C’è da credere che non ci sarà una seconda volta: al prossimo incontro gli argomenti cinesi saranno più affilati e contundenti.

© Riproduzione riservata