In questi giorni ricorre il quindicesimo anniversario dell’elezione alla Casa bianca di Barack Obama. Il suo allora vicepresidente Joe Biden, attuale inquilino della Casa bianca, ha ricordato quel momento con un video affettuoso pubblicato sulle sue pagine social dove rammenta anche che una foto di quelle ore fatidiche è ancora sulla sua scrivania.

Eppure, in queste ore si avverte una spaccatura tra i due presidenti dem, proprio riguardo alla condotta che devono tenere gli Stati Uniti nei confronti della guerra d’Israele contro Hamas nella Striscia di Gaza. Se il presidente ha annunciato varie volte il suo supporto incondizionato allo sforzo bellico dell’alleato mediorientale, il suo predecessore invece è più scettico.

Lo si poteva leggere già nel suo intervento pubblicato qualche settimana fa sulla sua pagina Medium, una piattaforma per pubblicare riflessioni lunghe e articolate, dove non veniva mai nominato l’Iran, pur riconoscendo appieno il diritto di difendersi d’Israele. Prerogativa che però, nell’opinione di Obama, deve tener conto delle vite dei civili.

Contro l’attivismo da TikTok

Secondo le stime delle Nazioni Unite, in questi giorni ne sarebbero morti novemila. Non è un caso quindi che in un intervista con l’ex collaboratore Ben Rhodes, già vice consigliere per la sicurezza nazionale e ora conduttore del podcast Pod Save America, l’ex presidente abbia pronunciato la frase «Nessuno può dire di aver le mani pulite», usata insieme a un’altra espressione forte come «siamo tutti complici».

Nella sua analisi Obama ha anche invitato gli ascoltatori a riconoscere «le complessità» del conflitto senza ridurre il tutto a uno sterile «attivismo da TikTok». La frase che però sembra una velata critica a Biden è quella che sostiene che «ignorare il costo umano della guerra contro Hamas può essere un boomerang».

E per certi aspetti lo è già: è dei giorni scorsi il dato del crollo della fiducia nel presidente da parte degli arabi americani, piombata a un misero 17 per cento contro un preoccupante 40 per cento di consensi a Donald Trump, peraltro noto per aver pronunciato in passato numerose tirate islamofobiche e per aver proibito l’immigrazione da sette paesi a maggioranza musulmana.

Le crepe

Quindi dopo che lo scorso 28 ottobre è passata all’unanimità una risoluzione al Senato a difesa d’Israele votata da tutti, anche da due scettici degli interventi all’estero come il repubblicano Rand Paul e l’indipendente affiliato ai democratici Bernie Sanders, si registra un cambio di linea nei confronti d’Israele anche nelle fila dei dem non appartenenti all’ala esplicitamente progressista, come i senatori Chris Murphy del Connecticut e Dick Durbin dell’Illinois.

Murphy, che fa parte della sottocommissione dedicata al Medio Oriente, ha dichiarato il 2 novembre che «il livello di morti civili dentro Gaza è inaccettabile e insostenibile» aggiungendo inoltre che bisognerebbe che Israele “cambi la sua strategia militare”. Più esplicito ancora Durbin, che peraltro è il numero due della leadership dem al Senato: «Bisogna arrivare a un cessate il fuoco».

Una critica mirata poi, è arrivata da un reduce delle campagne in Iraq e in Afghanistan come il deputato Jason Crow del Colorado che ha ricordato che «quando c’erano dei civili sul campo di battaglia, cambiavamo i nostri piani».

Le sfumature

Bisogna dire però che anche nelle sfumature del linguaggio usato dall’amministrazione è arrivato questo malessere, che rispecchia anche quello di una base elettorale che negli anni, secondo numerose rilevazioni, si è gradualmente allontanata dalla difesa di Israele.

Non è certo un caso che nell’incontro con il premier israeliano Netanyahu il segretario di Stato Antony Blinken abbia citato la necessità di «creare uno stato palestinese» pur dicendo anche «Israele ha il diritto di condurre le operazioni militari che ritiene necessarie». Ed è proprio qui il distacco che con l’ala progressista può allargarsi ulteriormente: lo stesso Sanders, pur negando di volere un cessate il fuoco immediato, ha chiesto a Tel Aviv un cambio di strategia, tenendo conto anche dei 14 miliardi di dollari in aiuti militari che verranno destinati allo stato ebraico una volta che verrà approvato il maxipacchetto da 106 miliardi di dollari chiesto dal presidente Biden al Congresso lo scorso 20 ottobre.

Altri appartenenti alla sinistra dem si spingono più in là: secondo quanto dichiarato dal deputato Andre Carson dell’Indiana, uno dei tre musulmani del Congresso, gli aiuti potrebbero aver violato la legge Leahy del 1997, un provvedimento che vieterebbe agli Stati Uniti di dare armi a paesi che abbiano commesso abusi sui diritti umani in modo chiaro e verificabile.

Secondo Carson, sostenuto anche dalla leader informale della Squad ultra-progressista Alexandria Ocasio Cortez, Israele farebbe parte di questa categoria. In passato altri aiuti sono stati negati ad alleati storici come Turchia, Messico e Colombia. Anche se difficilmente stavolta accadrà.

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