Dopo il discorso in diretta televisiva pronunciato da Joe Biden la scorsa settimana, non ci sono stati molti progressi su quello che era il punto centrale del pitch presidenziale, ovvero lo stanziamento di 106 miliardi di dollari in aiuti militari a Ucraina e Israele e per la difesa del confine messicano. Stavolta non è questione di numeri incerti nel Congresso, ma è proprio il Congresso a non funzionare, almeno per quanto riguarda la Camera dei Rappresentanti.

Dallo scorso 3 ottobre, giorno in cui un’insolita coalizione composta da otto deputati ultratrumpiani e dall’intero gruppo dem hanno sfiduciato lo speaker della Camera dei Rappresentanti Kevin McCarthy, la Camera non sta più funzionando, anche perché il suo sostituto pro-tempore, il deputato della Virginia Patrick McHenry, non ha alcun potere formale, se non quello di indire una nuova elezione per trovare un nuovo presidente dell’assemblea.

Figura che non si sta trovando, dato che sia l’istituzionalista Steve Scalise, già vice di McCarthy, e il trumpiano Jim Jordan, presidente della Commissione Giustizia, non sono riusciti ad ottenere i 217 voti necessari per l’elezione. Non solo per l’opposizione degli otto rappresentanti già citati, ma per il caos che regna all’interno del gruppo repubblicano, dove il prossimo che con ogni probabilità tenterà l’impresa sarà il numero tre della leadership del raggruppamento conservatore, il deputato del Minnesota Tom Emmer.

Il quale però ha un problema non da poco: Trump non lo ritiene abbastanza fedele e ha detto ai suoi alleati al Congresso (che sono ancora molti) di ostacolarne l’ascesa. Tutto questo mentre in ballo ci sono non soltanto gli aiuti per i due alleati in guerra, ma anche il budget federale, i cui fondi, secondo l’accordo bipartisan trovato in extremis, scadono il 17 novembre.

Il sostegno di McConnell

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Domenica è arrivato a sostegno al presidente Biden un appoggio inaspettato, ma non troppo: quello del senatore Mitch McConnell, leader dei repubblicani alla Camera alta. McConnell in un’intervista a Face The Nation ha annunciato la volontà di sostenere il piano di aiuti senza andare verso uno spacchettamento di quelli destinati allo stato ebraico.

McConnell ha detto di ragionare “in termini globali” e che la lotta di Israele e dell’Ucraina contro la Russia e il terrorismo islamico è di fatto la stessa. Come scritto dal giornalista Josh Kraushaar su Axios però, McConnell è riuscito a isolare il Senato in una sorta di “partito repubblicano vecchio stampo” dove i trumpiani esercitano un’influenza minima.

Vero, ma anche qualche influente deputato repubblicano ha sposato questa linea bipartisan: in due separate interviste televisive alla Abc e alla Cnn, il presidente della commissione esteri Michael McCaul e quello della commissione intelligence Mike Turner hanno espresso il loro sostegno al presidente.

In cerca dello speaker

Solo che al momento la risoluzione non può passare, dato che prima bisogna eleggere uno speaker e tra le fila repubblicane non ha raccolto il necessario consenso neppure l’ipotesi di un mandato a “tempo” di due mesi per il presidente a interim McHenry.

Questo farebbe salire le chance di Emmer per una semplice ragione: contrariamente a McCarthy, Scalise e Jordan, non ha mai espresso dubbi sulla correttezza della vittoria presidenziale di Joe Biden, sostenendo sia in sede istituzionale che in numerose interviste che la bufala promossa dall’ex presidente Trump e dai suoi alleati sui “numerosi brogli” che avrebbero truccato l’elezione del 2020 è senza fondamento. Quindi i dem, anziché votare compattamente per un proprio candidato (finora è stato il leader Hakeem Jeffries, sostenuto sempre da tutti e 212 i membri del gruppo), potrebbero votare “presente”, equivalente a un’astensione e favorirne così l’ascesa.

Un’altra ipotesi, che il Washington Post ha definito “fantasiosa” seguirebbe il modello di quanto avvenuto a livello locale in Alaska: i democratici proporrebbero a un gruppo di repubblicani moderati un accordo in modo da eleggere un nuovo speaker tagliando fuori la maggioranza del gruppo.

L’ipotesi principale che circola è quella di una promozione proprio di McHenry, non più temporanea ma definitiva, almeno fino a gennaio 2025, quando entrerà in carica il nuovo Congresso eletto a novembre 2024.

A spingere per una soluzione del problema, dunque, è quella tacita alleanza che qualche analista ha definito un “nuovo centro” e che in questi primi anni di presidenza Biden ha garantito alla Casa Bianca un sostegno su cui contare per promuovere un’agenda di ritorno dell’America sulla scena globale insieme a una ricostruzione della capacità produttiva dell’industria, evocata proprio da McConnell e da Biden come ragione per cui anche gli elettori dovrebbero sostenere questa linea pragmatica.

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