Oggi l’affermazione che gli Stati Uniti sono un impero è meno controversa. L’intellettuale di sinistra Howard Zinn, nella sua popolarissima Storia del popolo americano, parla dell’ «impero globale americano», e il suo spin-off in forma di graphic novel si intitola Storia popolare dell’impero americano. Sul versante della destra, il politico Pat Buchanan ha dichiarato che gli Stati Uniti si sono avviati «sulla stessa strada percorsa dall’impero britannico».

Nell’immensa distanza politica che separa Zinn e Buchanan, milioni di persone concorderebbero nel dire che gli Stati Uniti, almeno per alcuni versi, sono un impero.

Guerre e suprematismo

La questione è stata posta innumerevoli volte. L’espropriazione dei nativi americani, molti dei quali sono stati relegati nelle riserve, è stata un atto imperialista piuttosto evidente. Poi, negli anni Quaranta dell’Ottocento, gli Stati Uniti combatterono una guerra con il Messico e ne conquistarono un terzo del territorio. Cinquant’anni più tardi, combatterono contro la Spagna e ne rivendicarono la maggior parte dei territori oltremare.

Un impero, però, non consiste soltanto in conquiste territoriali. Come potremmo chiamare la subordinazione degli afroamericani? Agli occhi di W. E. B. Du Bois, i neri negli Stati Uniti sembravano più sudditi delle colonie che cittadini. Molti altri intellettuali neri, tra cui Malcolm X e i leader delle Black Panthers, erano d’accordo con lui.

Oppure, cosa dire della diffusione del potere economico degli Usa all’estero? Gli Stati Uniti non avranno conquistato fisicamente l’Europa occidentale dopo la Seconda guerra mondiale, ma ciò non ha impedito ai francesi di lamentarsi della «cocacolonizzazione». I detrattori si sono sentiti inondati dal commercio Usa. Oggi che gli affari del mondo si contano in dollari e ci sono McDonald’s in piu di cento paesi, capiamo che forse avevano ragione.

Poi ci sono gli interventi militari. Gli anni seguiti alla Seconda guerra mondiale hanno portato i militari statunitensi in un paese dopo l’altro. Le grandi guerre sono note: Corea, Vietnam, Iraq, Afghanistan. Ma c’è stato anche un flusso costante di scontri minori. Dal 1945, le forze armate statunitensi sono state schierate all’estero per conflitti o potenziali conflitti 211 volte in 67 paesi. Chiamatelo mantenimento della pace, se volete, o chiamatelo imperialismo. Ma chiaramente non stiamo parlando di un paese che ha tenuto le mani a posto.

Errore di archiviazione

In tutto questo parlare di impero, però, spesso sfugge alla vista il territorio reale. Sì, molti concorderebbero nel dire che gli Stati Uniti sono o sono stati un impero, per tutte le ragioni esposte fin qui. Ma cosa sa la maggior parte delle persone delle colonie in sé? Non molto, ci scommetto. E perché dovrebbe?

I libri di testo e le panoramiche della storia statunitense ospitano invariabilmente un capitolo sulla guerra con la Spagna del 1898, che portò all’acquisizione di numerosi territori e alla guerra filippino-americana («il capitolo peggiore praticamente in tutti i libri», si è lamentato un recensore). Eppure, in seguito, la copertura si indebolisce. L’impero territoriale è trattato come un episodio e non come un elemento costitutivo. Le colonie, una volta acquisite, svaniscono. Non che le informazioni non ci siano.

Da decenni gli studiosi, molti dei quali lavorano nei siti dell’impero stesso, si dedicano assiduamente alla ricerca su questo tema. Soltanto quando arriva il momento di zoomare all’indietro e raccontare il paese nella sua interezza, i territori tendono a scomparire. La confusione e la noncurante indifferenza che gli abitanti del continente mostrarono all’epoca di Pearl Harbor non sono cambiate molto.

Alla fin fine, il problema non è la mancanza di conoscenze. Le biblioteche contengono letteralmente migliaia di libri sui territori oltremare degli Usa. Il problema è che questi libri sono stati messi in disparte, archiviati, per così dire, sugli scaffali sbagliati. Ci sono, ma finché nella nostra testa avremo la mappa-logo appariranno irrilevanti. Sembreranno libri su paesi stranieri.

Confesso di aver commesso anch’io questo errore di archiviazione concettuale. Pur avendo studiato da dottorando le relazioni con l’estero degli Usa e letto un’infinità di libri sull’«impero americano» – le guerre, i colpi di stato, le ingerenze negli affari esteri –, nessuno si è mai aspettato che conoscessi neppure i fatti più elementari sui territori. Non sembravano importanti, ecco tutto. Soltanto quando sono andato a Manila per una ricerca su tutt’altro argomento ho capito.

Per arrivare agli archivi, viaggiavo su un «jeepney», un sistema di trasporto basato in origine sulle jeep dell’esercito americano riconvertite. Salivo su un tratto della metro di Manila in cui le strade portano i nomi dei college (Yale, Columbia, Stanford, Notre Dame), di stati e città (Chicago, Detroit, New York, Brooklyn, Denver) e di presidenti Usa (Jefferson, Van Buren, Roosevelt, Eisenhower).

Una volta giunto a destinazione, all’Ateneo de Manila University, uno degli istituti più prestigiosi del paese, sentivo gli studenti parlare quello che alle mie orecchie della Pennsylvania sembrava un inglese praticamente privo di accento. L’impero sarà anche difficile da vedere dal continente, ma è impossibile non accorgersene nei siti del dominio coloniale.

Una nuova prospettiva

Ho letto libri sulla storia coloniale delle Filippine e mi sono incuriosito su altre località: Puerto Rico, Guam, le Hawai‘i prima che diventassero uno stato. Questi luoghi fanno parte degli Stati Uniti, giusto?, ho pensato. Perché non ho mai pensato che facessero parte della loro storia?

Mentre ricatalogavo la mia biblioteca mentale, è emersa una versione della storia degli Usa sorprendentemente diversa. Eventi che in passato mi erano sembrati familiari sono apparsi sotto una nuova luce: Pearl Harbor è stato solo la punta dell’iceberg. Oggetti culturali ormai logori – il musical Oklahoma!, l’allunaggio, Godzilla, il simbolo della pace – hanno assunto una nuova importanza. Episodi storici sconosciuti, di cui mi ero a malapena reso conto, sembravano ora terribilmente importanti.

Mi sono ritrovato ad aggredire colleghi inermi nei corridoi per annunciare loro la notizia. «Lo sapevate che i nazionalisti di Portorico organizzarono una rivolta in sette città, che culminò nel tentato assassinio di Harry Truman? E che quattro anni dopo gli stessi nazionalisti spararono contro il Congresso?».

Questo libro si propone di mostrare come sarebbe la storia degli Usa se gli «Stati Uniti» indicassero i Grandi Stati Uniti, non la mappa-logo. Per scriverlo, ho visitato archivi in luoghi in cui gli storici americani solitamente non vanno, da Fairbanks a Manila. Tuttavia, allo stesso tempo, ho attinto generosamente alle intuizioni e alla ricerca sui territori che gli studiosi producono da generazioni. Alla fine, il contributo principale di questo libro non è archivistico, non è portare alla luce documenti mai visionati in precedenza. È di prospettiva: vedere in modo diverso una storia familiare.

Storia in tre atti

La storia dei Grandi Stati Uniti, come sono giunto a considerarla, si può raccontare in tre atti. Il primo è l’espansione verso occidente: la spinta a ovest dei confini nazionali e il dislocamento dei nativi americani. Questa non è la storia principale raccontata nel libro, ma è il punto di partenza. Persino questa vicenda tanto nota rivela aspetti poco familiari se esaminiamo il passato tenendo a mente il territorio, per esempio la creazione di un enorme Territorio indiano negli anni Trenta dell’Ottocento, che potremmo definire la prima colonia degli Stati Uniti.

Il secondo atto si svolge lontano dal continente, e la rapidità con cui ha inizio è sconvolgente. Soltanto tre anni dopo aver riempito la forma della mappa-logo, gli Stati Uniti cominciarono ad annettere territori oltremare. Inizialmente rivendicarono dozzine di isole disabitate dei Caraibi e del Pacifico. Poi l’Alaska nel 1867. Dal 1898 al 1900 assorbirono la maggior parte dell’impero oltremare della Spagna (le Filippine, Puerto Rico e Guam) e annetterono le terre non spagnole delle Hawai‘i, dell’isola di Wake e delle Samoa Americane. Nel 1917 acquistarono le isole Vergini americane.

All’epoca della Seconda guerra mondiale, i territori costituivano quasi un quinto della superficie dei Grandi Stati Uniti. Questa tipologia di espansione era tipica del XIX e del primo XX secolo. Quando i paesi diventavano più potenti, in genere diventavano anche più grandi. Ci si poteva aspettare, quindi, che gli Stati Uniti continuassero a crescere.

E in effetti alla fine della Seconda guerra mondiale avevano davvero reclamato molti territori: c’era stata la rivendicazione del proprio impero nel Pacifico, l’istituzione di migliaia di basi militari in tutto il mondo e l’occupazione di parti della Corea, della Germania e dell’Austria e di tutto il Giappone. Se aggiungiamo le terre sotto la giurisdizione degli Usa – colonie e occupazioni –, alla fine del 1945 i Grandi Stati Uniti comprendevano grossomodo 135 milioni di persone che vivevano al di fuori del continente. Ma la cosa più straordinaria successe in seguito.

Anziché convertire le occupazioni in annessioni (come avevano fatto dopo la guerra con la Spagna del 1898), fecero una cosa praticamente senza precedenti. Vinsero una guerra e rinunciarono a dei territori. Le Filippine, la loro colonia più grande, ottennero l’indipendenza. Le occupazioni si risolsero rapidamente e soltanto una – quella di una serie di isole scarsamente popolate della Micronesia – condusse all’annessione. Altri territori, pur non avendo ottenuto l’indipendenza, ricevettero un nuovo status.

Puerto Rico divenne un «commonwealth», denominazione che apparentemente sostituiva un rapporto coercitivo con uno consenziente. Le Hawai‘i e l’Alaska, con qualche ritardo, divennero stati, superando decenni di determinazione razzista a tenerli fuori dall’unione. Questo è il terzo atto, che solleva un interrogativo. Perché gli Stati Uniti, all’apice del potere, presero le distanze dall’impero coloniale?

Un nuovo modello di impero

Esploro questo interrogativo in modo approfondito perché riveste un’importanza enorme, pur essendo raramente sollevato. La risposta, in parte, è che i soggetti coloniali opposero resistenza, costringendo l’impero alla ritirata. Ciò avvenne sia all’interno dei Grandi Stati Uniti, dove portò a cambiamenti di status nelle quattro colonie più grandi, sia all’esterno, dove l’anti-imperialismo impedì ulteriori conquiste coloniali.

Un’altra ragione ha a che vedere con la tecnologia. Durante la Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti affinarono una serie straordinaria di tecnologie che diedero al paese molti vantaggi dell’impero senza dover effettivamente possedere delle colonie. La plastica e altri materiali sintetici consentirono agli Usa di rimpiazzare prodotti tropicali con sostituti realizzati dall’uomo. Aeroplani, radio e Ddt permisero di trasportare facilmente merci, idee e persone in paesi stranieri senza annetterli.

Analogamente, gli Stati Uniti riuscirono a standardizzare molti loro oggetti e pratiche – dalla filettatura ai segnali stradali, fino alla lingua inglese – al di là dei confini politici, ancora una volta ottenendo influenza in luoghi che non controllavano. Collettivamente, queste tecnologie allontanarono gli Stati Uniti dall’usuale modello di impero formale.

Rimpiazzarono la colonizzazione con la globalizzazione. Globalizzazione è una parola alla moda, ed è facile discuterne in termini vaghi, parlare di come tecnologie sempre più sofisticate uniscano un mondo eterogeneo. Ma quelle nuove tecnologie non sono saltate fuori dal nulla. Molte furono sviluppate dai militari statunitensi in un breve periodo di tempo, durante gli anni Quaranta del Novecento, con l’obiettivo di dare agli Stati Uniti una nuova relazione con il territorio.

In modo spettacolare, e nel giro di pochi anni, l’esercito costruì una rete logistica mondiale sconvolgente per la sua scarsa dipendenza dalle colonie. Fu sconvolgente anche perché accentrò il commercio, i trasporti e la comunicazione mondiale in un unico paese, gli Stati Uniti. Tuttavia, persino in quest’epoca di globalizzazione, il territorio non è scomparso. Non soltanto gli Stati Uniti continuano a detenere parte del loro impero coloniale (che contiene milioni di persone), ma rivendicano anche numerosi puntini sulla mappa.

A parte Guam, le Samoa Americane, le isole Marianne Settentrionali, Puerto Rico, le isole Vergini americane e una manciata di isole minori più remote, gli Stati Uniti mantengono grossomodo ottocento basi militari oltremare in tutto il mondo. Questi minuscoli granelli – l’isola Howland e simili – sono le fondamenta del potere mondiale degli Usa. Fungono da basi di partenza, rampe di lancio, siti di immagazzinamento, fari e laboratori. Costituiscono quello che definisco (basandomi su un concetto dello storico e cartografo Bill Rankin) un «impero puntillista».

Oggi quell’impero si estende su tutto il pianeta.


Il brano in queste pagine è un estratto del libro di Daniel Immerwahr, L’impero nascosto. Breve storia dei Grandi Stati Uniti d’America, edito nella sua versione italiana da Einaudi (2020). Traduzione di Chiara Veltri e Paolo Bassotti.

© Riproduzione riservata