La guerra tra russi e ucraini si svolge sempre di più attraverso la storia nazionale e la lettura ideologica che il passato propone alla coscienza nazionale e all’identità etnico-religiosa del paese.

La sostituzione dei manuali di storia delle biblioteche è il primo obiettivo delle truppe russe che entrano nei territori poi annessi da referendum (come avvenuto a Kherson prima della riconquista della città da parte di Kiev).

La lettura del passato diventa il primo marcatore della propria fedeltà, a Kiev o a Mosca. Il materiale storico primigenio dello scontro ideologico tra nazionalismi russo e ucraino è quello comune, della Rus’ di Kiyev, all’origine dell’etnogenesi dei vari popoli dell’area slavo-orientale (russi, bielorussi, ucraini).

La casa dei Rjurik, Ia stirpe scandinava fondatrice della Rus’ di Kiev, dà corpo alla statualità di questa regione, con l’ingresso nella civiltà cristiana orientale, ortodossa, di rito bizantino.

La memoria di questo periodo è contesa tra Mosca e Kiev, tra nazionalismo grande-russo e nazionalismo ucraino, terreno di scontro storiografico e ideologico, approfondito dal solco tracciato dal grande scisma della cristianità, quel 1054 che determina la rottura tra occidente e oriente cristiano, cattolici e ortodossi, tra Roma e Constantinopoli e poi Mosca (che rivendica il ruolo di “Terza Roma” dopo la caduta di Bisanzio sotto il dominio turco-ottomano).

La caratterizzazione religiosa è in questo contesto sostanziale, essendo il patriarcato di Mosca la più antica e ininterrotta istituzione del mondo slavo-orientale ed eurasiatico.

Polonia-Lituania e greco-cattolicesimo 

Dal Trecento, però, una gran parte di quest’area entra nell’orbita del Granducato di Lituania, cattolico romano, e quindi, attraverso l’unione personale della Lituania con il regno di Polonia: è l’Unione di Lublino della Rzeczpospolita, “Res Publica”, “Commonwealth” o “Confederazione” della Polonia-Lituania, integrata all’occidente cristiano e cattolico, includente Kiev, Leopoli e Minsk, dal 1569.

È il periodo che per una parte importante del nazionalismo “occidentalista” ucraino determina la Confederazione “polacco-lituano-ucraina” (formula “occidentalista” che evidenzia la partecipazione degli ucraini in senso etno-religioso al fianco dei popoli istituzionalmente costitutivi lo stato dualista).

In questo contesto, con l’unione di Brest del 1596, ha origine e si sviluppa la chiesa greco-cattolica che raccoglie le comunità rutene e ucraine, già ortodosse, che riconoscono la primazia del papa.

Il “greco-cattolicesimo” è forse il maggiore vulnus causato da Roma al mondo ortodosso in età moderna. Era stato il risultato della mobilitazione cristiana contro l’imminente pericolo turco-musulmano minacciante Constantinopoli (che infatti poi sarebbe caduta sotto dominio islamico quindici anni dopo, nel 1453), quando il papa Eugenio IV al Concilio di Firenze avrebbe raggiunto il compromesso dottrinale di unione tra “latini” (chiesa cattolica romana) e “greci” (chiese ortodosse greche), guidati dall’imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo e dal patriarca di Costantinopoli Giuseppe II.

L’accordo, rifiutato poi dalla chiesa ortodossa al ritorno della delegazione bizantina a Constantinopoli, era rimasto però in vigore e applicato dalle monarchie cattoliche (come il regno di Polonia e quello d’Ungheria) per indebolire le comunità ortodosse dei loro rispettivi territori orientali (per la Polonia la Galizia, oggi Ucraina occidentale e per l’Ungheria le pianure orientali e la Transilvania, oggi Romania) e creare delle comunità di rito ortodosso fedeli a Roma e al cattolicesimo.

Agganciata all’occidente romano ma preservante il rito bizantino orientale, la chiesa greco-cattolica ucraina diventa il principale produttore identitario di differenziazione dall’ortodossia (orientale) per l’Ucraina (occidentale).

Ucraini e ruteni greco-cattolici (detti anche “uniati”) sono a Mosca chiamati ancor oggi, con un certo disprezzo, zapadenzi (dal termine russo zapad, occidente), e in effetti hanno sviluppato una cultura fortemente nazionalista, base dell’indipendentismo antirusso per uno stato-nazione ucraino, europeo e integrato all’occidente.

Questo sviluppo culturale e religioso dell’Ucraina occidentale viene d’altro lato considerato da Mosca e dal nazionalismo russo come “spurio” ed “eterodiretto”, analogamente al giudizio sul processo di “espansione” della Nato (e dell’Unione europea) ad est, in terre ortodosse e slave.

Il mito della libertà cosacca

Un altro fattore identitario controverso è quello della cultura cosacca: è l’altro pilastro etno-culturale di una regione caratterizzata dal confronto tra civiltà stanziale e civiltà nomade. I cosacchi sono cavalieri, signori delle steppe e dei “campi selvaggi”, che sulle terre tra il Dniepr e il Don si sono costituiti in “corpi” armati.

Si dedicano a scorribande, sono cacciatori e pescatori, ma anche pastori: queste tribù libere combattono contro turchi e tatari per i polacchi, poi contro i polacchi, quindi si appoggiano ai russi.

Nella complessità della storia cosacca si riflette tutta la pluralità dell’Ucraina moderna: la nobiltà dei capitribù sviluppa una identità politica intorno all’etmano Bogdan Chelmitzki, il “duce” cosacco che a metà del XVIII secolo è capace di affermare l’“etmanato”, la prima realtà statuale indipendente sulle terre a cavallo del Dniepr, contro i polacchi e con l’aiuto dei russi.

La protezione dello zar viene sugellata nel patto di Pereyaslav, del 1654, che diventa fino ad oggi per i russi e i filorussi l’origine della fratellanza tra russi, cosacchi, ucraini, mentre per i nazionalisti ucraini è simbolo della servitù imposta da Mosca.

Le conseguenze dell’estensione del dominio di Mosca su queste terre sono importanti, se dal 1686 anche la giurisdizione della chiese metropolitane di Kiev viene rivendicata dal patriarcato di Mosca.

Al dominio imperiale russo si oppone eroicamente – in qualche modo anticipando il movimento nazionalista contemporaneo – il capo cosacco Ivan Mazepa, sconfitto dalle truppe dello zar al fianco degli svedesi a Poltava nel 1709.

Nelle simbologie opposte di Pereyaslav e Poltava prende corpo l’ambivalenza del valore cosacco: gli epigoni fedeli allo zar e alla “Madre Russia”, e i “mazepisti” nazionalisti ucraini.

La questione linguistica e federale

In queste vicende la lingua ucraina, caratterizzata da fasce di isoglosse progressive tra il russo e il polacco (e il bielorusso), soffre dell’egemonia e della preminenza del russo (e dei divieti delle autorità).

Nella comunità greco-cattolica dell’Ucraina occidentale, la Galizia asburgica, nella seconda metà del XIX secolo si tenta per qualche anno l’istituzionalizzazione dell’uso dell’alfabeto latino per la trascrizione dell’ucraino: questo “latynka” ucraino si articola con l’esempio della trascrizione del polacco.

La traslitterazione in caratteri latini viene usata nell’effimera Repubblica popolare dell’Ucraina occidentale, alla fine della grande guerra, e nelle zone sotto occupazione tedesca durante la seconda guerra mondiale: discussa (senza successo) nel 1927 alla conferenza ortografica sovietica di Karkhov, riprende quota dall’indipendenza post-sovietica, nel 1996.

L’alfabeto latino è un simbolo, un segno tangibile dell’appartenenza all’occidente, rilanciato a seguito della rivoluzione arancione del 2004 dal progetto di “euro-ucraino” dell’allora presidente Viktor Yushchenko: dopo l’invasione russa, l’approvazione delle norme sulla scrittura in alfabeto latino è avvenuta il primo aprile 2022, come ulteriore tassello dell’occidentalizzazione dell’Ucraina sotto attacco russo a riprova dell’integrazione euro-atlantica.

La questione linguistica è particolarmente problematica nel confronto tra uso della lingua russa e conoscenza della lingua ucraina: l’approccio dell’Ucraina indipendente degli anni Novanta è infatti basato sull’de-etnicizzazione dell’idioma russo, diffuso come lingua veicolare e predominante soprattutto all’est e al sud del paese.

In queste zone, fino alla vigilia dell’invasione russa del febbraio 2022, la differenza tra un russo d’Ucraina (ad esempio di Crimea, o dell’estremo est) e un russofono ucraino era difficile a definirsi: si rifletteva tuttavia nel successo elettorale del Partito delle regioni guidato dall’ex presidente Viktor Yanukovich, che per la sua cultura autonomista e federalista raccoglieva però consensi anche presso le minoranze alloglotte ai confini occidentali del paese (come gli ungheresi della regione carpatica).

Con il febbraio 2014, la rivoluzione del Maidan e la fuga di Yanukovich, la dissoluzione del Partito delle regioni lascia la zona grigia della russofonia senza rappresentanza partitica anche se rimangono attivi sul campo leader legati a Mosca (come l’oligarca putiniano Viktor Medvedchuk e l’ex ministro dell’energia Jurij Bojko) e formazioni filorusse minori di opposizione (che tra la presidenza Poroshenko e quella di Vladimir Zelenskij, non potendo più contare dal 2014 sul voto della Crimea e del Donbass, raccolgono ormai solo 1 elettore su 10 della popolazione).

Tuttavia, dopo la stretta normativa sull’attività degli oligarchi nel 2021, l’invasione russa del febbraio 2022 identifica negli esponenti filorussi i possibili agenti di Mosca all’interno dell’Ucraina, esponendoli alla perdita della cittadinanza decisa dal governo di Kyiv nelle scorse settimane.

La guerra tra fratelli “ortodossi”

Questi provvedimenti indeboliscono così quel che resta della comunità politica filorussa, andando a colpire non solo deputati e politici ma anche esponenti e fedeli della Chiesa ortodossa, accusata di fornire informazioni dall’interno del territorio ucraino agli invasori russi.

La guerra tra “fratelli ortodossi” si svolge in profondità nel paese, lacerando le comunità ecclesiali ed il tessuto sociale dei territori, in un paese in cui le istituzioni ecclesiastiche contano ancora molto (si consideri che se in Russia solo il 6 per cento della popolazione partecipa settimanalmente alla messa, in Ucraina questa percentuale sale al 12).

Già nel dicembre 2018, al termine di un processo di autonomia confessionale (e contestualmente di indipendenza geopolitica interna al mondo cristiano orientale) dalla chiesa ortodossa russa di Mosca, si era tenuto a Kiev il Concilio di unificazione per la costituzione di una chiesa ortodossa ucraina autocefala, come chiesa ortodossa d’Ucraina, nazionale e autonoma.

E il patriarca ucraino Epifani, nel gennaio 2019, riceveva infatti a Costantinopoli dalle mani del patriarca ecumenico Bartolomeo il “tomos” dell’autocefalia. Con l’invasione russa, di fronte alla posizione favorevole alla guerra da parte del patriarca di Mosca Kirill, il muro insuperabile tra le comunità ortodosse si è innalzato anche tra i fedeli dell’Ucraina.

La stretta di controllo sulle attività ecclesiali si è intensificata: a fine 2022 un decreto pone sotto la lente del Consiglio della sicurezza e difesa nazionale le attività della chiesa ortodossa ucraina rispondente al patriarcato di Mosca, vale a dire della grande chiesa nazionale fedele dottrinalmente a quella ortodossa russa, accusata di svolgere il ruolo di antenna locale delle nazionalismo religioso russo e della proiezione del nazionalismo panrusso del “Russkij Mir”, il “mondo russo”.

Il destino della chiesa ortodossa ucraina (filorussa?)

Eppure quest’istituzione, che vanta il tradizionale nome ufficiale di chiesa ortodossa ucraina, continua ad avere un ruolo importante per la gestione spirituale (e materiale) di tante comunità ortodosse nel paese, avendo dichiarato la propria piena indipendenza da Mosca lo scorso maggio e dimostrato una notevole capacità di resilienza.

Da una parte, le norme ucraine riconoscono come responsabili di fronte alla legge le singole istituzioni ecclesiastiche sul territorio nazionale: ogni parrocchia, diocesi, monastero risponde singolarmente delle accuse di attività antinazionale e filorussa (e in questo modo si evita la criminalizzazione dell’intera istituzione).

Fin dall’inizio del conflitto si è impegnata nella raccolta di aiuti all’esercito ucraino, impegnato nella difesa del territorio nazionale, e per l’apertura di corridoi umanitari nell’assedio di Mariupol.

Nonostante le pressioni politiche, solo 1 parrocchia su 10 delle 12 mila che si contavano alla vigilia del conflitto è passata sotto l’autorità dell’unificata chiesa ortodossa d’Ucraina: quest’ultima, inoltre, autocefala per decisione costantinopolitana, non ha il diritto di fondare nuove parrocchie all’estero.

La diaspora ucraina, dunque, si trova all’estero a frequentare altre comunità ortodosse oppure ad appoggiarsi giocoforza nelle nuove parrocchie (si parla di oltre 30 città europee in cui risultano inaugurate queste comunità ucraine di fede ortodossa, incluse Anversa, Colonia, Lipsia) che la chiesa ortodossa ucraina apre per dare conforto ai fedeli, spesso profughi della guerra.

Se Kiev ha dichiarato la propria indipendenza e stabilito la propria libertà di adesione alle decisioni di Mosca, Mosca però considera ancora la chiesa ucraina pienamente parte della chiesa russa, elencando nel sito web ufficiale diocesi e vescovi d’Ucraina.

La chiesa ortodossa russa e la guerra

D’altronde la chiesa ortodossa russa non è solo una Chiesa, ma un potere antico più dello stato e per tradizione transnazionale. Dopo la fine dell’Unione sovietica è stata l’unica istituzione che ha continuato a proiettarsi nello spazio ex imperiale e postsovietico come “territorio canonico”, sia dove la fede ortodossa è maggioritaria (come in Ucraina, Belarus e Moldova) sia dove minoritaria (Pesi baltici e centro-asiatici).

Le chiese ortodosse in questi paesi sono da un punto di vista legale istituzioni nazionali, ma dal punto di vista canonico parti integranti della chiesa russa, come chiese autonome (Ucraina, Lettonia, Estonia, Moldova), esarcati (Belarus), eparchie (Lituania) o distretto metropolitani (Kazakhstan).

A livello dottrinale e rituale da Mosca si irradia una prospettiva conservatrice e russa: lo slavo ecclesiastico è la lingua rituale, il russo è la lingua della documentazione ecclesiastica, i santi russi sono il panteon da venerare in tutto lo spazio internazionale ortodosso di fede patriarcale moscovita.

Ogni chiesa e istituzione ecclesiastica nazionale, pur avente origine nella chiesa ortodossa russa, è legalmente indipendente nei rispettivi paesi, ma dal punto di vista canonico non può rendersi indipendente per atto unilaterale in quanto atto “scismatico”.

Le condanne dell’intervento militare russo in Ucraina sono così venute non solo da Kiev ma anche da Vilnius e dalle altre capitali dell’ex spazio sovietico; tuttavia, le loro richieste di autonomia vengono esaminate all’interno del contesto sinodale ortodosso russo.

L’unica chiesa che si è posta al fianco di Mosca è quella di Minsk dove il primate bielorusso, il metropolitano Veniamin, ha espresso sostegno a Kirill e all’intervento militare russo.

L’identificazione del patriarcato con l’azione del governo russo, del patriarca Kirill come alter ego di Vladimir Putin, ha però esposto la chiesa ortodossa russa a un impasse burocratica senza uscita: a fine dicembre il Sinodo ortodosso russo a rimandato sine die il Consiglio dei Primati ortodossi, organo supremo del mondo ortodosso, che in questa situazione di tensione e conflitto si presenta senza quorum, in quanto né primati ucraini né altri europei parteciperanno al consesso per non avallare le posizioni del patriarcato moscovita.

Il processo di indipendentizzazione delle chiese ortodosse nazionali sembra ormai inesorabilmente avviato di fronte ad un’istituzione di tradizione e missione universalistica, quale il patriarca di Mosca, ormai compromessa e delegittimata di fronte ai propri stessi fedeli.

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