Sono passati 41 anni, ma le persone continuano a morire. Oggi ricorre l’anniversario del disastro di Bhopal, città indiana nello stato federato del Madhya Pradesh, dove nella notte tra il 2 e il 3 dicembre 1984 si verificò un gravissimo incidente industriale che portò al decesso di migliaia di persone.

Una nube di gas tossici, tra cui l’isocianato di metile (Mic), fuoriuscì dallo stabilimento chimico della Union Carbide India Limited, contaminando le aree limitrofe. L’azienda, che produceva pesticidi, era la filiale indiana della multinazionale statunitense Union Carbide Corporation (Ucc), acquisita dalla Dow Chemical nel 1999.

La storia

Negli anni ’80 il fatturato era in calo, quindi, per tagliare i costi, i dirigenti della Ucc avevano progressivamente ridotto le misure di sicurezza e la formazione del personale nell’impianto indiano. Né i lavoratori, né gli abitanti sapevano quanto il Mic fosse letale: secondo Amnesty International, morirono circa 7.000 persone nell’immediato, e altre 15.000 negli anni seguenti, a causa di malattie dovute all’esposizione ai gas tossici. I numeri, però, potrebbero essere molto più alti.

Dopo anni di proteste e battaglie legali, nel 1989 la Union Carbide e la corte suprema indiana giunsero a un accordo, fissando il risarcimento a 470 milioni di dollari, somma destinata a coprire tutte le richieste di risarcimento legate al disastro. Una compensazione che però si rivelò inadeguata ad affrontare la vastità del problema, e che evitò all’azienda di pagare per la bonifica dell’area contaminata.

L’impatto del disastro nel tempo

«Le persone che al momento del disastro avevano quattro, cinque o sei anni svilupparono malattie croniche a causa dell’avvelenamento. Oggi, le stesse persone muoiono prematuramente, intorno ai cinquant’anni», spiega Satinath Sarangi, attivista indiano e fondatore della clinica Sambhavna Trust, che offre assistenza medica gratuita alle vittime del disastro.

«Inoltre, ci sono circa 150.000 persone che vivono vicino alla fabbrica abbandonata», aggiunge Sarangi. «Hanno malattie che colpiscono i polmoni, l’apparato respiratorio, quello cardiovascolare e il sistema immunitario. Abbiamo anche scoperto che il tasso di mortalità dovuto al Covid era quattro volte superiore tra le vittime del gas rispetto agli altri abitanti nel distretto di Bhopal. A essere gravemente colpito dal disastro è stato anche il sistema riproduttivo, in particolare nelle donne, e quello muscolo-scheletrico. Oltre a queste problematiche, abbiamo trovato malattie che si sono sviluppate in seguito. Troppe vittime del gas stanno ancora morendo di cancro o di malattie al fegato che risultano fatali. Quest’ultimo potrebbe essere sia un effetto dei gas tossici, sia una conseguenza dell’eccesso di antidolorifici che le persone hanno preso negli anni per contrastare il dolore costante».

Dal punto di vista sanitario, il disastro fu infatti aggravato dalla mancanza di informazioni: nemmeno dopo l’incidente la Union Carbide fornì dettagli sull’entità dei gas rilasciati nell’aria. Pertanto, il personale medico diede alle persone misure palliative anziché cure mirate, alimentando inavvertitamente la loro dipendenza dagli antidolorifici.

Inoltre, quanto accaduto 41 anni fa ha avuto gravi impatti sociali. Sarangi ci dice che «il disastro è tutt’altro che finito, soprattutto perché anche la generazione successiva è stata gravemente colpita. Innanzitutto, i bambini hanno subìto le conseguenze dell’esposizione dei loro genitori: il reddito familiare è diminuito e molti di loro non hanno potuto frequentare la scuola, o hanno dovuto abbandonarla. Inoltre, ci sono moltissimi bambini con ritardi nello sviluppo fisico e mentale.»

«Allo stesso tempo, la situazione ambientale è sempre più preoccupante, perché la contaminazione si sta diffondendo», aggiunge Sarangi. Gran parte dei rifiuti tossici si trova sottoterra, in un’area vicina allo stabilimento, senza impermeabilizzazione né rivestimenti.

«Al momento non esiste alcun piano per bonificare questi rifiuti pericolosi sotterranei, che sono la vera fonte della contaminazione», dichiara l’attivista, secondo cui fino a oggi «tutto ciò che è stato fatto in nome della bonifica del sito ha reso il problema ancora più complesso».

Sarangi si riferisce in particolare ai rifiuti presenti in superficie, che dopo essere stati raccolti nel 2005, sono stati inceneriti quest’anno, generando però il triplo delle ceneri tossiche. «Ora quindi il problema è ancora più grande: prima c’erano 300 tonnellate di rifiuti pericolosi, ora ce ne sono 900, e nessuno sa che cosa farne».

Infine, Sarangi denuncia la presenza nelle acque di sostanze organiche persistenti, i Pop, inquinanti che si degradano molto lentamente nell’ambiente. «Sappiamo che uno studio governativo del 2018 ha rilevato la presenza di Pop fino a tre chilometri e mezzo dalla fabbrica. Ma negli ultimi sette anni non è stato condotto alcuno studio. Questo significa che la contaminazione deve essersi diffusa ancora di più. E ci sono persone che oggi bevono quell’acqua contaminata».

Oltre Bhopal

Il 1° dicembre 2025, durante una conferenza stampa in occasione dell’anniversario del disastro, quattro organizzazioni di sopravvissuti hanno accusato il BJP (Bharatiya Janata Party, partito politico indiano di cui fa parte anche il presidente Narendra Modi) di essere il principale responsabile delle ingiustizie e delle sofferenze ancora presenti. Presentando un atto d’accusa hanno sottolineato che, pur definendosi un partito patriottico, il BJP ha spesso privilegiato gli interessi delle multinazionali statunitensi rispetto a quelli dei cittadini indiani.

Ancora oggi in India vengono dislocati gli impianti produttivi di grandi aziende multinazionali. Un caso esemplare coinvolge proprio l’Italia: dopo la storica sentenza che ha condannato i manager di Miteni (azienda chimica che aveva contaminato il territorio veneto con i Pfas), le attrezzature, i brevetti e i processi dell’impianto italiano sono stati spostati a Lote Parshuram Midc, una vasta area industriale a ovest dell’India.

Lo stabilimento è operativo dall’inizio del 2025 e produce sostanze chimiche che saranno utilizzate in pesticidi, prodotti farmaceutici, coloranti, cosmetici. Uno spostamento che riduce i costi per le aziende, ma non i rischi per le persone e l’ambiente.

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