Il Sudan è la storia di un meraviglioso sogno tramutatosi in un incubo a un passo dal compimento con un’accelerazione impressionante. Solo qualche settimana fa si discuteva della road map di un accordo che per la prima volta nella storia del paese, dall’indipendenza del 1956, avrebbe condotto al potere un esecutivo formato al 100 percento da civili.

Sarebbe stato il completamento di un percorso sofferto quanto sorprendente, innescato nell’aprile del 2019 dalla cosiddetta primavera sudanese, che portò alla cacciata e al successivo arresto di Omar al Bashir – trentennale dittatore islamico, criminale di guerra e contro l’umanità – interrotto nell’ottobre del 2021 dal golpe del generale Abdel Fattah al Burhan, capo dell’esercito, e poi ripreso sul finire dello scorso anno. Oggi il paese è in fiamme.

Come è ormai noto, l’intesa, che prevedeva la confluenza di tutte le forze armate, comprese quelle delle Rapid Support Forces (Rsf) di Momahed Hamdan Dagalo (detto Hemedti), in un unico esercito, è saltata proprio per il timore di Dagalo che il proprio immenso potere venisse diluito e disperso nelle forze regolari e, con esso, il controllo di luoghi strategiche come le miniere d’oro. E ora, a ormai 13 giorni dall’inizio degli scontri tra Rsf e Saf (Forze Armate Sudanesi) di al Burhan, il Sudan che aveva convogliato su di sé l’interesse e il sostegno di tutta la comunità internazionale attorno all’esperimento di passaggio dalla dittatura alla democrazia, si ritrova solo.

I movimenti civili, pervicacemente rimasti saldi sui propri principi e sempre pronti a scendere in piazza per difendere la loro primavera, anche nei lunghissimi mesi repressivi del golpe, tornano strenuamente a far sentire la voce. Comitati di pace hanno mediato vari cessate il fuoco nella regione del Darfur che sembrano reggere, come conferma al Washingtonn Post Salah al Din Muhammad al Fadl, capo dell’Amministrazione dei nativi del Darfur, un forum governativo con rappresentanti di tutte le tribù.

«I leader del Darfur – aggiunge - non vogliono affatto la guerra perché l’hanno provata per molti anni. L’iniziativa comprende rappresentanti di tutte le tribù e della società civile e punta a sperimentarla in tutte le parti del Sudan». Nel frattempo alle terribili notizie provenienti dal campo – i morti, al 25 aprile, sarebbero 470 e i feriti 4.100 secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità – si aggiungono quelle riguardanti la circolazione a piede libero di criminali fino a qualche giorno fa rinchiusi nelle carceri.

Il partito di al Bashir

A preoccupare più di altre fughe è l’uscita dal carcere di Kober, a Khartoum, di Ahmed Haroun, capo del Partito del Congresso Nazionale di al Bashir e tra le decine di funzionari sudanesi arrestati nel 2019 in seguito alla rivolta popolare. Potentissimo membro dell'ex governo sudanese, Haroun è ricercato dall’Aia per crimini di guerra e contro l’umanità. Sulla sua testa pendono oltre 40 capi d’accusa tra cui stragi, stupri, torture, attacchi ai civili e distruzione di proprietà, commessi in Darfur mentre ricopriva la carica di Ministro degli Interni e, successivamente, di Ministro per gli Affari umanitari.

La libertà di questa figura di spicco del cerchio magico di al Bashir, alimenta rumors che circolano da giorni circa la sua stessa possibile uscita dal carcere. L'ufficio stampa della polizia sudanese ha dichiarato alla CNN che Bashir sarebbe ancora sotto la custodia delle forze armate in un ospedale militare a Omdurman, a ovest di Khartoum. Ma la chiosa della dichiarazione alla nota emittente americana: «Al Bashir resta in ospedale mentre tutti gli ex leader del regime sono stati evacuati dalla prigione di Kober» non fa che rafforzare i timori per un progressivo rientro in scena della cricca dittatoriale.

«Purtroppo – spiega a Domani Mekki Ali Alderderi, presidente del Centro culturale sudanese in Francia - questo rafforzerà le attività del movimento islamico. Il Partito del congresso nazionale userà l'attuale conflitto per raggiungere i propri scopi. In questo momento si accreditano come uomini di principi morali, dicono che sono usciti di prigione ma che si arrenderanno e ci torneranno non appena la sicurezza tornerà nel paese. Allo stesso tempo si schiereranno a fianco delle forze armate contro le Rsf. Questo significa che puntano ad apparire come fedeli alla causa nazionale, uomini che possono aiutare a difendere l'integrità del Sudan. Ma dietro tutto ciò c’è l'intenzione di rientrare ancora una volta. Questi seguaci del regime sono parte integrante di questa crisi e proprio ora cercheranno di trarne vantaggio».

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