Qualche giorno fa la presidente Tsai Ing-wen ha inaugurato a Taipei la prima struttura per formare 3.800 addetti a curare i soldati feriti in battaglia secondo le linee guida statunitensi della “Tactical Combat Casualty Care”. Impareranno a trattare le orribili, invalidanti lacerazioni riportate dai militari al fronte seguendo le tecniche di soccorso sperimentate in decenni di conflitti, dal Vietnam all’Iraq.

Costato oltre 16 milioni di dollari e costruito assieme all’Istituto nazionale di scienza e tecnologia Chung-Shan (il principale produttore di armi dell’isola), il complesso è dotato di sistemi con intelligenza artificiale e realtà virtuale per simulare l’assistenza alle vittime di armi chimiche.

Il giorno di Natale i media locali hanno dato grande risalto al test del “Teng Yun 2”, il drone made in Taiwan capace di rimanere in volo per 20 ore sullo Stretto che la separa dalla Repubblica popolare cinese, per osservare le mosse del nemico e, se necessario, colpirlo con le sue bombe, assieme agli MQ-9 “Reaper” forniti dagli Stati Uniti.

La Repubblica di Cina (questo il nome ufficiale, con il quale Taiwan è riconosciuta da 13 piccoli stati e dal Vaticano) gode di una indipendenza di fatto: governa un territorio, ha un esercito – piccolo e debole, se paragonato a quello del suo dirimpettaio – e ha iniziato, dopo la fine, nel 1987, della legge marziale, a scegliere democraticamente i suoi rappresentanti.

Ma la libertà dell’ex Formosa resta condizionata dalla potenza egemone e da quella in ascesa che pretendono di controllarla. Per il Partito comunista la “riunificazione” di Taiwan è al centro del «grandioso risveglio della nazione cinese» promosso da Xi Jinping.

Le «linee rosse»

Al netto delle ipocrisie giuridico-diplomatiche, per Washington Taiwan negli ultimi anni sta diventando un avamposto per contenere l’avanzata cinese nel Pacifico.

Una rivalità strategica che ha impedito che il 15 novembre scorso a San Francisco tra Xi e Joe Biden si raggiungesse qualsiasi accordo per spegnere la miccia. I media ufficiali hanno riferito che il segretario generale del Pcc ha sottolineato agli americani le «invalicabili linee rosse» della Cina: basta mettere in dubbio l’ambiguo «principio» secondo cui esiste «una sola Cina» – ovvero la politica che, ufficialmente, Washington segue dal riconoscimento della Rpc nel 1979 –, stop ai rifornimenti di armi avanzate a Taipei.

Il presidente Usa invece ha detto ai giornalisti che con Xi su Taiwan si è limitato a scambiare un paio di battute.

Più armi Usa a Taipei

Nella legge con cui Biden, alla vigilia di Natale, ha autorizzato lo stanziamento di 886 miliardi di dollari per la difesa Usa nel 2024, è previsto che il segretario alla Difesa, in consultazione con il governo di Taipei, stabilisca un programma completo di formazione, consulenza e rafforzamento delle forze armate taiwanesi; che i funzionari statunitensi controllino le consegne di articoli per la difesa, per evitare ritardi; e un maggiore sostegno da parte di Washington alla partecipazione di Taiwan all’interno delle organizzazioni internazionali.

Il timore di una guerra tra le due sponde dello Stretto sarà, per la seconda volta consecutiva, al centro delle presidenziali e legislative che si svolgeranno a Taiwan il 13 gennaio prossimo. E questo voto, più di quello del 2020, rappresenterà uno spartiacque.

Il vice della presidente Tsai e candidato a succederle, William Lai Ching-te, del Partito progressista democratico (Dpp) scommette sul rafforzamento delle relazioni con Washington e su un progressivo allontanamento da quello che rappresenta tuttora di gran lunga il principale partner commerciale di Taiwan, la Repubblica popolare cinese.

Gli altri due pretendenti, Hou Yu-ih, del Partito nazionalista (Kuomintang) – che, secondo i sondaggi, tallona William Lai – e Ko Wen-je, del Partito popolare (Tpp) – che nelle ultime settimane avrebbe perso terreno – sono favorevoli al mantenimento di buoni rapporti, economici e politici, con Pechino.

Sbarco impossibile?

Se la presidenza andrà – come nel 2016 e nel 2020 – al Dpp, a Lai e alla sua vice designata Hsiao Bi-khim, che Pechino giudica «indipendentisti irriducibili», la tensione salirà alle stelle.

Tuttavia una guerra, al momento, appare improbabile. Se Vladimir Putin ha compiuto un grosso errore immaginando che l’armata russa potesse entrare trionfalmente a Kiev, per la Rpc Taiwan sarebbe ancora più difficile conquistare: a separarla dall’isola ci sono 180 chilometri di mare e i possibili punti dove sbarcare le truppe sono 14 spiagge, tutte circondate da scogli e foreste. Un incubo per qualsiasi invasore.

Inoltre, l’Esercito popolare di liberazione non ha esperienze recenti di guerra, tantomeno di occupazioni militari. A Pechino è considerato più realistico un altro scenario, quello di un blocco navale dell’isola (al quale l’Epl si addestra da mesi) per favorire la formazione di un governo amico, nell’ipotesi di caos politico a Taipei, magari in seguito a un’elezione contestata.

Questa mossa però – quantunque gli Stati Uniti scegliessero di non intervenire a difesa di Taiwan – avrebbe come effetto immediato l’isolamento internazionale di Pechino. La Cina, alle prese col tentativo di far ripartire la crescita dopo gli anni della pandemia, sta provando a percorrere la strada inversa, per favorire i suoi commerci con i mercati più ricchi e quelli emergenti.

Eppure si tratta di un’ipotesi a cui a Taiwan in molti credono. L’autorevole CommonWealth Magazine ha chiesto a 200 amministratori delegati di aziende locali: «Avete paura di una guerra tra Taiwan e Cina entro i prossimi cinque anni?», e il 60 per cento ha risposto di sì (nell’ottobre scorso erano il 46 per cento), più della popolazione, che teme maggiormente il rallentamento dell’economia.

La settimana scorsa, durante il primo confronto televisivo tra i tre pretendenti alla presidenza, Hou Yu-ih ha invitato William Lai Ching-te a rivedere le sue posizioni, sostenendo che l’indipendenza di Taiwan avrebbe come conseguenza la guerra.
«Signor Lai, lei è il presidente del Dpp. Siete disposti ad abolire la piattaforma indipendentista del partito, in modo che i cittadini possano… stare tranquilli?», lo ha incalzato il candidato del Kuomintang.

Lai ha risposto attaccando Hou per aver accettato il principio «una sola Cina» così come il modello «un paese, due sistemi» applicato a Hong Kong, che la leadership di Pechino ha suggerito anche per Taiwan e che, secondo il favorito per la presidenza, «non lascerebbe più spazio di sopravvivenza alla Repubblica di Cina».

La minaccia di Pechino

«C’è molta incertezza nelle elezioni di Taiwan, ma una cosa è certa: se William Lai Ching-te dovesse salire al potere, non si può escludere la possibilità di un conflitto militare attraverso lo Stretto, e dobbiamo esserne pienamente consapevoli», ha avvertito la settimana scorsa Wang Zaixi, ex vicedirettore dell’Ufficio per gli affari di Taiwan del governo di Pechino.

Lai ha criticato anche Ko Wen-je, del Partito popolare: «Sindaco Hou e presidente Ko, pensate che accettando il principio “una sola Cina”… e placando Pechino, saremmo in grado di vincere la pace?» ha chiesto agli avversari, sostenendo che da tempo la strategia della Repubblica popolare è quella di «inghiottire Taiwan», indipendentemente da ciò che sostengono i partiti politici dell’isola.

Rispetto alla campagna del 2020, quando solo Tsai utilizzò lo slogan «Hong Kong oggi Taiwan domani», per convincere gli elettori che soltanto il Dpp sarebbe stato in grado di difendere l’isola da Pechino, questa volta anche l’opposizione si candida a salvare il paese.

«Anche se Taiwan sembra calma in superficie, come appare dall’esterno? – ha dichiarato Hou in un’intervista a CommonWealth Magazine – Proprio come due settimane prima della guerra Ucraina-Russia, gli Stati Uniti avevano avvertito l’Ucraina che la Russia stava per attaccare. Credo che Zelensky abbia ricevuto questa informazione con preoccupazione, ma le notizie date al pubblico non erano così precisa e la guerra è scoppiata immediatamente. Quindi non possiamo giocare d’azzardo con la guerra».

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