Arabi, ceceni, pakistani, uiguri, tagichi, turkmeni, uzbechi, iraniani del Sistan: sarebbero otto/diecimila i guerrieri non afghani aggregati ai Talebani. Quale sarà il loro futuro? Se lo chiedono con apprensione tutti gli stati dell’area, essendo evidente che il vertice dei Talebani non ha la volontà né la capacità di espellerli. I nuovi padroni di Kabul hanno promesso e ribadito che il suolo afghano non sarà usato per lanciare attacchi in altri paesi, così come espressamente richiede la risoluzione 2.593 appena approvata dal Consiglio di sicurezza. Ma nella risoluzione si dice anche che l’Afghanistan non dovrà “dare rifugio” (shelter) a terroristi, e in merito i Talebani sono evasivi. Incalzato da vari giornalisti asiatici, il portavoce Zabihullah Mujahid ha ripetuto che non sta all’Afghanistan risolvere i conflitti interni ai paesi confinanti: provvedano questi ultimi.

Jihad globale

Mujahid l’ha ripetuto anche a proposito del Ttp, il movimento secessionista del Waziristan pakistano che in patria si è scontrato ferocemente con l’esercito, ma negli ultimi anni ha combattuto soprattutto in Afghanistan, a fianco dei Talebani. Caduta Kabul il Ttp tornerà al suo progetto originario, l’indipendenza da Islamabad? E in questo caso chi lo tratterrà dal lanciare attacchi dai suoi campi in territorio afghano, attraversando una frontiera di fatto inesistente?

La domanda «cosa faranno adesso?» può essere estesa non solo a tutte le organizzazioni guerrigliere oggi acquartierate nell’emirato, nella serena certezza che i vecchi compagni d’arme non li tradiranno, ma anche agli 80mila Talebani afghani.

La gran parte sarà inquadrata nella polizia coranica e nell’esercito. Molti si accontenteranno del modesto stipendio offerto dal nuovo lavoro, oltre che di uno status che permette di predare ragazze, o perlomeno di frustrarle o lapidarle se indocili. Ma per chi si considera un combattente del jihad globale e non sa fare altro che la guerra, anche una pace afghana, cioè molto relativa, è una iattura. E anche un danno economico, perché si tratta di rinunciare non solo ai grandiosi ideali, ma anche al soldo di generosi finanziatori, alle compartecipazioni in vari traffici, alle decime imposte ai coltivatori. A sua volta anche il vertice politico è in ambasce. Non può permettersi incidenti diplomatici con i vicini, la nomea di rifugio di terroristi gli costerebbe l’isolamento. Ma neppure può abiurare il jihad globale senza suscitare la reazione di tanti guerrieri, afghani e non.

Talebani “nazionalisti” contro Talebani “internazionali”, questi ultimi mescolati a jihadi stranieri ormai anche attraverso matrimoni: il dissidio si trascina dal 2001, quando alcuni comandanti “nazionalisti” protestarono con l’emiro Omar per l’avventurismo jihadista di Osama bin Laden. Non riesploderà adesso, dopo la vittoria. Almeno non sùbito. Probabilmente il vertice politico otterrà che i combattenti della guerra santa globale, afghani e stranieri, concedano una tregua, il tempo necessario per consolidare la vittoria. Poi si vedrà.

Quale guerra al terrore

Nel frattempo Kabul e la comunità internazionale si atterranno allo schema universalmente accettato dopo la strage all’aeroporto: i terroristi dello Stato islamico contro i Talebani, adesso “male minore”. Questa narrativa affiora anche nella risoluzione del Consiglio di sicurezza, dove si “prende atto” della condanna dell’attentato emessa dai Talebani.

Lo stesso Consiglio di sicurezza, in un rapporto pubblicato l’anno scorso, vedeva le cose diversamente: poiché lo Stato islamico mancava «della capacità di lanciare attacchi complessi a Kabul», gli attentati che rivendicava «con ogni probabilità erano stati portati a termine dall’Haqqani network», la più poderosa struttura militare dei Talebani. E ancora: per quanto i Talebani ne avessero negato la paternità e l’Isis l’abbia rivendicata, certi attacchi «erano stati interamente orchestrati dall’Haqqani network, o al più realizzati (da quest’ultimo) in joint venture con lo Stato islamico». Se avessero letto in questo modo anche il massacro all’aeroporto di Kabul gli americani avrebbero dovuto accusare l’Haqqani network: ma sono quelli i Talebani che controllano la capitale, e stava a loro decidere se gli occidentali potevano fuggire dall’Afghanistan senza essere sterminati come accadde ai britannici due secoli fa.

Ma oggi i jihadi sono un problema soprattutto per i paesi confinanti o comunque interessati alle turbolenze afghane. È attesa una riunione della Sco, Shangai cooperation organization, cui parteciperanno non solo i paesi membri (Cina, India, Kazakistan, Kirghizistan, Russia, Pakistan, Tagikistan e Uzbekistan) ma anche l’Iran come osservatore. La possibilità di concordare una posizione comune sconta inimicizie storiche, innanzitutto tra India e Pakistan, e conflitti “freddi” o “caldi” sui confini, arbitrari come tutti i confini dell’Asia centrale. Se non bastasse, molti di quei regimi sono riusciti a diventare ancora più impopolari con un’applicazione estesa del reato di ”estremismo”, in teoria diretta contro i terroristi ma in realtà utilizzata per colpire il dissenso.

E per tutto questo la war on terror asian style finora è stata più fallimentare perfino della war on terror occidentale. Costretta a fare i conti con la polveriera afghana, l’Asia ha un’occasione storica per sedare vecchi conflitti e concordare strategie politiche meno ottuse di quelle cui ricorrono gli stati di polizia per riflesso pavloviano; ma anche nuove opportunità per montare in segreto altre guerre per procura e per intensificare quelle in corso. Nel secondo caso i combattenti delle guerre sante non tarderanno a ottenere un nuovo ingaggio da chi intende usarli come agenti del caos.

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