Per sistemare i conti dello stato ed efficientare una macchina burocratica malandata, Elon Musk ha perso di vista Tesla, una delle aziende che lo hanno reso l’uomo più ricco del mondo e che ora è in difficoltà. Anche – soprattutto – per la politica dei dazi che Donald Trump ha imposto contro il consiglio del suo alleato più vociante.

Ecco quindi la nemesi di Musk, che di fronte al crollo degli indicatori di Tesla ha dovuto rassicurare per iscritto gli azionisti, promettendo che dal prossimo mese dedicherà meno tempo ed energie a Doge, anche se rimarrà coinvolto in qualche misura con l’agenzia che ora presiede fino alla fine del mandato di Trump. Si è dimenticato tuttavia di ricordare che Doge è nato come progetto a tempo, con la promessa di chiudere i battenti dopo aver portato a termine il suo compito il 4 luglio 2026.

I profitti di Tesla sono calati del 71 per cento rispetto al primo trimestre del 2024 e le entrate del 9 per cento. Le vendite di auto sono decresciute del 13 per cento. Martedì, quando Musk ha scritto agli azionisti, il titolo di Tesla ha chiuso a un valore inferiore del 37 per cento rispetto a un anno prima. La flessione nelle performance dell’azienda è iniziata prima del coinvolgimento di Musk in politica, ed è legata a diversi fattori fra cui l’ascesa di competitor come BYD, ma nella lettera agli azionisti ammette che le politiche commerciali dell’amministrazione «possono avere un impatto significativo sulla domanda dei nostri prodotti nel breve termine».

In una call con gli investitori, Musk ha detto di aver parlato a lungo con il presidente dei dazi, ma alla fine «la decisione spetta a lui». «Ho detto apertamente molte volte – ha spiegato – che credo che basse barriere commerciali siano in generale una buona idea per la prosperità. Continuerò ad invocare dazi bassi invece che alti, ma è tutto quello che posso fare».

Nella decisione di Musk si legge in controluce, ma nemmeno troppo, il suo allontanamento dal volubile centro di gravità delle decisioni della Casa Bianca, il presidente che si circonda di consiglieri e collaboratori che poi rimpiazza al primo cambio di umore. Da quando è sceso in campo nella campagna elettorale, Musk è stato il personaggio che più di tutti ha ricevuto la fiducia del presidente, arrivando a parlare per suo conto più o meno di qualunque argomento, conducendo anche opache operazioni di diplomazia parallela. In questi mesi, Musk ha resistito agli assalti della cosiddetta fazione “populista” del mondo Maga, quella che si rifà alla visione di Steve Bannon, il disgraziato ex consigliere di Trump che si è dato come obiettivo di cacciarlo dalla Casa Bianca, ma è uscito ammaccato dal dibattito sui dazi, che lo ha marginalizzato politicamente e ha avuto effetti devastanti sui titoli tecnologici e le aziende come Tesla. La campagna di vandalizzazione di auto e concessionari da parte degli antagonisti di Trump non ha contribuito a migliorare le cose.

Ma il passo di lato di Musk va letto anche nel contesto più generale della gestione del potere di Trump in questa fase. Nel secondo mandato si è diffusa una convinzione: contrariamente al primo mandato, si diceva, questa volta il presidente ha strutture solide e una macchina organizzativa collaudata che gli permetterà di evitare che la Casa Bianca si trasformi in un reality show segnato da continuo turnover e sostanziale inconcludenza.

Le ultime settimane stanno sfatando questo luogo comune. La ricostruzione del dibattito sui dazi mostra segretari e consiglieri che rincorrono gli umori cangianti del presidente e appena li colgono organizzano conferenze stampa all’insaputa degli avversari interni; il Pentagono è un inqualificabile colabrodo in mano a dilettanti che maneggiano maldestramente informazioni classificate e poi sperano di tamponare il problema con un giro di licenziamenti; il presidente si è anche stancato di negoziare per risolvere un conflitto che avrebbe risolto in 24 ore, ma ora sta uscendo dalla lista delle priorità. Ora anche Musk rimette gli occhi sulle sue attività private, distogliendoli da quelle pubbliche.

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