Alla metà di febbraio, non appena il Covid-19 ha cominciato a farsi largo su scala internazionale, la Corea del Sud rappresentava la seconda nazione più colpita in assoluto, immediatamente dopo la Cina, dove il virus aveva avuto origine. Ad alcuni mesi di distanza, e proprio mentre l’Europa e gli Stati Uniti sembrano incapaci di governare una nuova e violentissima ondata, il “modello sudcoreano” di risposta alla pandemia continua a riscuotere consensi e apprezzamenti.

Ciò, naturalmente, non significa che la Corea non abbia dovuto far fronte alle enormi difficoltà causate dalla diffusione del virus, ma semplicemente che il paese ha reagito prontamente, efficacemente e senza grossi scossoni.

I numeri, del resto, parlano chiaro: nel momento in cui questo articolo viene chiuso, la Corea del Sud (circa 51 milioni di abitanti) registra, dall’inizio della pandemia (e ciò è bene sottolinearlo), poco più di 25mila casi di positività, quasi 24mila cittadini clinicamente guariti, e 462 decessi. Il paragone con quanto sta accadendo in molti paesi occidentali è impietoso. Occorre, tutta

Non si tratta, quindi, di un paese in cui la diffusione del virus può essere contenuta o debellata perché un governo di stampo autoritario impone regole stringenti ai propri cittadini. Seoul, al contrario, si è sottratta alla ferocia dei regimi militari nel lontano 1987 e, da quel momento, ha intrapreso il sentiero democratico – per cui i suoi cittadini hanno fieramente lottato – conquistandosi progressivamente una posizione di vertice nel ranking globale dei paesi più prosperi ed economicamente avanzati.

È altresì necessario rimarcare come il Confucianesimo – e quindi la filosofia sociale che più parti è stata ritenuta responsabile del docile asservimento del popolo alle direttive dell’autorità costituita – c’entri molto poco per spiegare la piena osservazione delle regole di comportamento da parte dei cittadini. Più concretamente, il governo e la popolazione sudcoreana hanno dato vita a qualcosa di molto semplice, ammirevole ed estremamente raro, vale a dire apprendere dalle dure esperienze vissute nel passato stringendosi in un’intima collaborazione affinché tali situazioni non si verificassero più in futuro.

La strategia di Seul 

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Fatte queste debite precisazioni, cerchiamo di comprendere quale sia stata la ricetta del successo sudcoreano, che, almeno fino a questo momento, ha addirittura consentito al paese di sfuggire a qualunque tipo di lockdown generalizzato.

In primo luogo, il caso coreano conferma come, in situazioni analoghe a quella che stiamo vivendo, sia importante trarre adeguati insegnamenti dalle passate esperienze, così come fornire una buona e precisa informazione alla popolazione.

Se, infatti, all’inizio della pandemia, alcuni paesi occidentali, tra cui l’Italia, hanno ignorato o sottostimato le linee guida e i protocolli sanitari forniti dall’Organizzazione mondiale della sanità, l’approccio sposato dal governo coreano si è mosso nella direzione opposta, improntando il proprio operato alla massima trasparenza nei confronti dell’opinione pubblica.

Tale atteggiamento è una diretta conseguenza della sciagurata gestione delle precedenti pandemie: la Sars nel 2003, l’influenza H1N1 nel 2009, e, soprattutto, la Mers nel 2015. In quest’ultimo caso, infatti, la scarsa trasparenza del governo in carica in quel frangente si era rivelata fatale: il fatto che gli ospedali si fossero trasformati in veri e propri focolai di diffusione del virus era stato tenuto nascosto dal governo, impaurito dalle avverse conseguenze finanziarie nel caso di chiusura dei nosocomi.

Proprio in considerazione degli errori commessi allora e delle loro conseguenze politiche, l’attuale governo ha proceduto a riscrivere gran parte della legislazione in materia di prevenzione delle pandemie, approntando una serie di misure che si sono rivelate particolarmente efficaci.

Una seconda caratteristica fondamentale della risposta sudcoreana al Covid-19 è stata la sollecita reazione offerta dalle autorità. Immediatamente dopo la pubblicazione della sequenza genetica del virus, a gennaio, il governo ha attivato una disposizione emergenziale, approvata già nel 2015, che ha consentito alle industrie biotecnologiche di cominciare a produrre e a stoccare test diagnostici, minimizzando qualunque impedimento burocratico e massimizzando la risposta alla sollecitazione sanitaria.

Nel momento in cui il Covid-19 ha cominciato a mostrare tutta la sua virulenza, la Corea del Sud si è dimostrata capace di testare gratuitamente più di 15mila persone al giorno, in postazioni “mobili” in cui il tampone veniva effettuato senza che l’utente lasciasse l’automobile, oppure in una sorta di cabina telefonica in cui l’operatore sanitario, completamente protetto, poteva procedere alla somministrazione del tampone.

Le procedure venivano espletate in non più di dieci minuti e la risposta inviata direttamente al telefono cellulare dell’utente. Al 5 di marzo la Corea aveva già testato 145mila persone: più di Italia, Francia, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti messi insieme.

Ancora allo stato attuale, tutti coloro che lamentano sintomi riconducibili al Covid-19 hanno l’obbligo di mettersi in contatto telefonico con la hotline sanitaria (disponibile anche in lingua inglese per gli stranieri), che fornisce un’iniziale valutazione e tiene quotidianamente sotto controllo questi cittadini.

Dall’inizio della pandemia le autorità hanno istituito più di 100 laboratori dedicati esclusivamente al Covid e più di 600 siti (fissi e mobili) in cui sottoporsi al tampone.

In aggiunta al massiccio piano di testing, si è provveduto all’attuazione di precise misure di quarantena, che hanno contribuito ad allentare sensibilmente la morsa sugli ospedali, al fine di impedire che questi fossero presi d’assalto e si trasformassero in luoghi di proliferazione del virus. Il governo, infatti, ha approntato apposite strutture di ricovero per pazienti a vari stadi della malattia, facendo largo utilizzo di hotel e dormitori in cui è stato possibile attuare un’osservazione centralizzata di coloro che manifestavano sintomi lievi.

Nel caso di aggravamento dei sintomi, i malati vengono trasportati presso uno degli ospedali riconvertiti in centri Covid, in modo da evitare che si crei qualunque tipo di promiscuità con coloro che necessitano di cure per altro genere di patologie.

Stretta sui confini

Anche l’apertura dei confini internazionali, infine, ha subito una stretta: agli stranieri in arrivo nel paese viene imposta una quarantena di due settimane in centri attrezzati, mentre i coreani che fanno rientro nel paese devono scaricare una applicazione che registra le loro condizioni di salute nei giorni immediatamente successivi.

Come se non bastasse, il governo ha deciso di razionalizzare e porre sotto controllo il prezzo delle mascherine – già abitualmente usate nel paese – in modo da rispondere alla loro iniziale carenza. In questo senso, non solo si è fatto affidamento sul sistema farmaceutico integrato per controllare la distribuzione delle mascherine, ma si è proceduto all’attento monitoraggio dei produttori di materiale sanitario al fine di impedire qualunque fornitura non autorizzata all’esterno del paese.

Un’utile applicazione telefonica dà l’opportunità ai cittadini di sapere quali siano le farmacie con maggiore disponibilità di mascherine. È forse superfluo sottolineare come le mascherine siano offerte gratuitamente a tutti coloro che mostrano sintomi riconducibili al Covid-19.

È necessario sottolineare peraltro come lo scorso aprile, in piena pandemia, la Corea del Sud abbia chiamato, come previsto, i propri cittadini alle urne per le elezioni legislative. Il risultato è stato oltremodo sorprendente, visto che l’afflusso è risultato il più alto da trent’anni a questa parte e il successo del partito di governo è stato eclatante.

Dalle dichiarazioni rilasciate dagli intervistati si intuisce come il risultato elettorale sia stato fortemente influenzato proprio dalla efficace gestione della pandemia da parte della compagine governativa.

Il tracciamento

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Ciò che ha maggiormente distinto il modello sudcoreano è stato, comunque, l’avanzato sistema di tracciamento tecnologico. Immediatamente dopo la Mers del 2015, il governo assunse la decisione di emendare la legge sulla prevenzione delle malattie infettive, concedendo alle autorità un più ampio controllo sui dati dei cittadini colpiti da qualunque genere di virus.

In caso di pandemia, quindi, le principali compagnie di telecomunicazioni e bancarie (per il tracciamento delle carte di credito) del paese, oltre all’agenzia di polizia e ed a quella del fisco, devono obbligatoriamente fornire i dati dei propri utenti. Mediante l’incrocio di questa serie di informazioni le autorità riescono agevolmente a monitorare (avvalendosi anche del fatto che in Corea ci sono statisticamente due telecamere a circuito chiuso ogni 100 abitanti) con estrema precisione gli spostamenti dei soggetti che hanno contratto il virus, dal giorno precedente all’insorgenza dei sintomi fino al momento del test e della successiva messa in quarantena.

Le informazioni così raccolte vengono poi socializzate (anche attraverso il sito del governo, celando l’identità, la residenza e la sede di lavoro dei soggetti risultati positivi) con i cittadini che risiedono o che hanno transitato nelle zone “a rischio”, di modo che questi possano adottare le misure cautelative necessarie (come l’auto-quarantena) prima di diventare essi stessi strumenti di diffusione della pandemia.

I dati incamerati dal sistema, e accuratamente protetti, possono essere utilizzati esclusivamente dagli operatori del Centro per il controllo e la prevenzione delle epidemie per la durata della crisi sanitaria, ed al termine di questa vengono definitivamente eliminati.

Tale metodologia è stata soggetta a numerose critiche a livello globale, a causa di ciò che viene considerata una palese violazione della privacy individuale.

C’è da dire, tuttavia, che questo complesso sistema tecnologico di tracciamento – attivato solo quando il metodo tradizionale, basato cioè sul dialogo diretto o telefonico con coloro che hanno contratto il virus, risulti insufficiente – sposta completamente l’ottica da un approccio di tipo diagnostico ad uno di tipo preventivo, riuscendo in tal modo ad abbassare sensibilmente la quota dei decessi.

Insomma, ci sono buone ragioni per considerare la risposta sudcoreana alla diffusione della pandemia come un modello virtuoso, seppur non interamente privo di difetti. “Testare, tracciare e isolare”: queste le tre parole chiave alla base della politica sanitaria coreana di questo periodo, condite da un inossidabile sentimento di fiducia che contraddistingue il rapporto tra autorità e cittadini e che è finalizzato unicamente a sconfiggere il comune nemico. Di questi tempi bisognerebbe probabilmente prenderne nota anche ad altre latitudini.

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