A volte lo stereotipo corrisponde al vero. Una figura come Timothy Mellon rappresenta per certi aspetti il capitalista come se lo immagina la sinistra radicale: anziano (è nato nel 1942), viene da una famiglia di origine scozzese e le origini della sua ricchezza sono familiari.

Possiede la Pan Am System, un’azienda di trasporto ferroviario di merci che deriva dalla storica compagnia aerea. È un forte sostenitore del Partito repubblicano. A differenza di molti altri finanziatori anche il suo rapporto con il partito repubblicano è tradizionale.

Il capostipite Thomas Mellon è emigrato dall’Irlanda del Nord protestante in Pennsylvania, dove è stato abbagliato dalla ricchezza dei Negley, una famiglia storica di Pittsburgh. È diventato un giudice distrettuale e ha sposato Sarah Negley nel 1843, siglando così il suo ingresso nell’alta società.

Nel 1870 ha fondato la Banca Mellon e il suo legame con la politica repubblicana risale a quel periodo: dopo la morte di Lincoln il partito è diviso tra un’ala radicale, favorevole a una ridiscussione del concetto di proprietà privata, e una favorevole agli interessi del grande business.

Segretario del Tesoro

L’interesse del patriarca Mellon è con questi ultimi: sostiene il cugino James Negley, deputato ed ex veterano della Guerra civile, che contribuisce attivamente alla repressione dello sciopero generale del 1877 costituendo una milizia contro i manifestanti.

Uno dei figli di Thomas, Andrew, inizia a gestire la banca di famiglia all’età di 26 anni. Come il padre, anche lui è attivo in politica e tramite il boss repubblicano Matthew Quay fa imporre alti dazi sull’alluminio importato per proteggere le industrie sulle quali aveva investito.

Perché gli interessi industriali del gruppo di Mellon andavano dalle acciaierie, passando per l’edilizia, la cantieristica navale e la produzione di legname. Il figlio del patriarca diventa un tycoon e viene nominato nel 1921 segretario al Tesoro dal presidente Warren Harding. La ricetta: tasse basse e poche regole per il business.

La nomina di un semisconosciuto banchiere di Pittsburgh è stata accolta con entusiasmo dal mondo degli affari. È stato proprio lui a smontare molte delle regolamentazioni introdotte dal progressismo e a definire anche l’istituzione della Federal Reserve come un atto «incostituzionale» che poneva regolamentazioni surrettizie al libero mercato.

Limitazioni che però ha lasciato in piedi a livello di dazi doganali sulle importazioni. È durato ben 11 anni, il più longevo segretario al Tesoro della storia americana. Alla fine è stato allontanato dal suo incarico dal presidente Herbert Hoover, perché anche durante la Grande Depressione, nel 1931, diceva che il modo per uscire velocemente dalla crisi era quello di «liquidare gli asset, i dipendenti e gli immobili. Bisogna spurgare via il marcio dal sistema. Solo così i più capaci raccoglieranno i cocci per ripartire».

Gli anni di Obama

Torniamo a Timothy e al presente: nel 2005 lascia il Connecticut dove viveva fino a quel momento per trasferirsi in Wyoming, a Laramie. Dai verbali della Andrew Mellon Foundation traspare poco delle sue idee, confermando l’impressione di aver a che fare con un miliardario molto schivo e ostile alle attenzioni della stampa.

Fa capolino in politica soltanto negli anni di Obama, dopo la sentenza Citizen United del 21 gennaio 2010: suo nonno Andrew avrebbe molto apprezzato quella rimozione dei vincoli al “diritto di parola” dei miliardari.

Il primo beneficiario della sua generosità è lo stato dell’Arizona, che in quel periodo aveva varato la legge SB 1070, che sotto la sigla numerico-burocratica celava un antipasto del futuro trumpiano: un provvedimento che richiedeva a tutti i migranti legali di avere sempre con sé il proprio permesso di soggiorno, pena la contravvenzione qualora ci fosse il «ragionevole sospetto» che potesse essere un clandestino.

In uno stato con il 16 per cento di cittadini non bianchi di origine ispanica, questo favoriva una profilazione razziale informale. Non solo: si proibiva alle agenzie federali di interferire con i respingimenti statali e si proibiva l’offerta di cibo e rifugio ai migranti irregolari.

Una legge controversa che mirava a modificare in senso restrittivo anche la normativa federale attraverso i ricorsi presso le Corti federali.

Il sostegno dal Wyoming

A sostegno di questa legge è arrivato un assegno dal Wyoming, che un articolo di Usa Today datato 30 settembre registra come di un privato cittadino: un milione e mezzo, come dichiarato dall’ufficio della governatrice Jan Brewer.

Non è bastato a salvare la legge. O almeno non del tutto: la legge è rimasta formalmente in piedi, ma la parte sulla supremazia statale nei confronti del governo federale è stata smantellata da una sentenza della Corte suprema del 2012.

Nel febbraio 2016 Mellon ha pubblicato una sua autobiografia stampandola in proprio e rendendola liberamente scaricabile dal suo sito. Apparentemente un classico pamphlet motivazionale da parte di un imprenditore.

Nulla di più sbagliato: nel suo Please Call Me Tim, Mellon lanciava una pesantissima accusa ai democratici, dicendo che avevano costretto gli afroamericani a una sorta di “nuova schiavitù”: «Per votare alle elezioni federali ricevono un sacco di benefit: buoni spesa, cellulari, Obamacare e così via. E intanto i lavoratori onesti e indipendenti che pagano tutto questo sono sempre meno». Sembrerebbe un pensiero originale, per quanto urticante, ma

non è affatto originale: queste parole echeggiano fortemente quelle di uno di colossi del pensiero ultraconservatore, l’australiano Kenneth Minogue, che nel suo La mente servile affermava che il welfare state moderno costituiva una specie di servitù contemporanea e che questo rendesse la democrazia una forma di governo sempre meno attraente.

Tutto questo è passato inosservato per anni, finché Mellon non è tornato a finanziare la politica nel midterm 2018: 10 milioni versati al Congressional Leadership Fund, il comitato d’azione politica dei repubblicani. Più un assegno misterioso da 2.700 dollari a una semisconosciuta candidata democratica, la newyorchese Alexandria Ocasio-Cortez. Non sappiamo perché, data la riluttanza di Mellon a rispondere alle richieste della stampa.

Nel 2020 Mellon dona direttamente 10 milioni ad America First, il comitato di Trump, per un totale di quasi 40 milioni complessivi nell’intero ciclo elettorale. Sempre però senza far conoscere i motivi delle sue scelte, se non tramite le sue bizzarre espressioni contenute nella sua autobiografia in pdf.

Il muro

L’attivismo di Mellon non finisce qui: si è nuovamente fatto sentire quest’anno e non soltanto perché ha versato del denaro ad Harriet Hageman, avvocata e sfidante dell’odiata Liz Cheney, obiettivo numero uno del Trumpworld.

Ma anche perché ha staccato un assegno gigantesco da 53 milioni di dollari per costruire il muro al confine tra Texas e Messico voluto dal governatore Greg Abbott. E la cifra richiesta era di 54 milioni di dollari.

Nemmeno a dirlo, anche stavolta Timothy Mellon è rimasto in silenzio. Possiamo ipotizzare che questa sua strategia di mantenere un profilo bassissimo sia funzionale ad ottenere per sé il posto di futuro segretario al tesoro come il nonno Andrew. L’età non è certo a suo favore, ma stiamo parlando di un coetaneo del presidente Joe Biden, che ha annunciato di voler puntare alla rielezione nel 2024.

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