Per quasi cinquant’anni, durante la Guerra Fredda, lo spazio è stato terreno di scontro tra Usa e Urss dal “momento Sputnik” al “programma Apollo” fino alle “Star Wars” di Reagan. Con il tracollo dell’Unione Sovietica le cose sono cambiate e, negli ultimi decenni, lo spazio è stato soprattutto terreno di coltura della cooperazione internazionale.
Emblema di questa fase è stato il progetto della Stazione Spaziale Internazionale (acronimo Iss). Attiva dal 1998, e abitata dal 2000, la stazione spaziale ha ospitato – uno di fianco all’altro – scienziati americani e russi, europei e giapponesi che, per più di vent’anni, hanno portato avanti esperimenti finalizzati allo studio degli effetti sulla biologia umana di una lunga permanenza nello Spazio.

Con i suoi 25 anni in orbita, la Iss ha già superato ogni più rosea aspettativa sulla sua longevità (il suo ciclo di vita inizialmente previsto era di 15 anni) ma anche per lei si avvicina ormai il momento del ritiro.
Sono infatti sempre più frequenti le notizie di guasti e, in ogni caso, la sua data di pensionamento è già fissata: il 2030. Sette anni possono sembrare molti ma per un oggetto del costo – la Iss è il singolo manufatto più costoso mai prodotto dal genere umano – e della complessità di una stazione spaziale il 2030 è dietro l’angolo.
Suscita dunque una certa preoccupazione, in primis ai vertici della Nasa, il fatto che, al momento, il tema del suo rimpiazzo stia diventando occasione per proiettare anche nello spazio il crescente frazionamento e la sempre più intensa conflittualità geopolitica a cui stiamo assistendo sulla Terra.

Torna la Guerra Fredda

Da simbolo del multilateralismo e della cooperazione nei decenni a cavallo tra vecchio e nuovo millennio, lo spazio sta tornando a essere il terreno su cui si misurano, come in uno specchio, le ambizioni e i progetti di grandeur delle superpotenze terrestri. Anzi, è già tornato a esserlo da tempo.
La nuova “Guerra Fredda spaziale” ha anche un data d’inizio: il 2011, ovvero quando il governo di Obama proibì alla Nasa qualunque cooperazione con la Cnsa, l’agenzia spaziale cinese, di fatto chiudendo le porte della Stazione Spaziale Internazionale agli astronauti cinesi.
La Cina ha dovuto così fare da sola e nel 2021 ha lanciato una sua stazione spaziale, la Tiangong (in mandarino Palazzo Celeste): un progetto che nella visione della Cina di Xi Jinping non ha valenza solo scientifica ma anche fortemente culturale e simbolica, coronando il ritorno del Dragone tra i grandi del mondo. A ogni buon conto, l’esempio cinese è stato seguito anche dall’India di Modi che, dal 2019, sta lavorando a una propria stazione che, tuttavia, non si prevede in orbita prima del 2035.

Negli Stati Uniti, nel frattempo, lo spazio sta divenendo sempre più contesto d’interazione tra enormi capitali privati e istituzioni governative, su tutte la Nasa. Anche i lavori su una nuova Stazione Spaziale stanno, di conseguenza, assumendo tali connotati da “capitalismo politico”. A oggi la Nasa ha fornito ben quattro concessioni a consorzi privati per lo sviluppo di stazioni spaziali commerciali.

Si va dal progetto Starlab, che punta al lancio nel 2028 e vede schierato una specie di dream team dell’industria aerospaziale occidentale (Airbus, Northrop Grunman e Voyagerspace, da non confondere con il vecchio programma Voyager della Nasa), alla joint venture tra Sierra Space e Blue Origin (di proprietà del fondatore di Amazon Jeff Bezos), fino alla start-up Vast, fondata dal miliardiario delle crypto Jed McCaleb, una new entry che punta al lancio di una mini-stazione spaziale entro il 2025, forte anche della partnership con Space-X.

Il ruolo europeo

Ci si potrebbe chiedere: e l’Europa? Al momento, come in altri campi, l’Europa, pur non mancando di buone intenzioni, si mantiene piuttosto defilata e prudente, con l’Esa che, giusto poche settimane fa, a inizio novembre, ha siglato un memorandum d’intesa in cui si dice particolarmente interessata agli sviluppi del progetto Starlab (non che la cosa sorprenda, data la presenza della francese Airbus nel mazzo).

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