Per contrastare l’influenza cinese il presidente Usa potrebbe accontentarsi dell’attuale situazione: un leader solido come Kagame gli assicura stabilità in un’area che ha vissuto sin troppi sconvolgimenti. Sarebbe anche l’occasione per assestare un’umiliazione all’Onu
Per contrastare l’influenza cinese il presidente Usa potrebbe accontentarsi dell’attuale situazione: un leader solido come Kagame gli assicura stabilità in un’area che ha vissuto sin troppi sconvolgimenti. Sarebbe anche l’occasione per assestare un’umiliazione all’Onu
Ora sarà da vedere come Donald Trump vorrà affrontare le guerre africane. Se non se ne occuperà arriverà Pechino. Durante lo scorso mandato il tycoon non parve molto interessato (shithole countries definì quei paesi) ma la Repubblica Democratica del Congo (Rdc) ora forse lo attirerà perché si tratta davvero di una miniera d’oro, un giacimento a cielo aperto di tutte le terre rare (molto più dell’Ucraina). La Rdc viene chiamata “scandalo geologico” per tale ragione.
La strategia del Ruanda
Dopo aver preso Goma e Bukavu, nel Nord e Sud Kivu, le truppe del movimento congolese ribelle M23 appoggiate dai soldati regolari ruandesi si sono avvicinate a Uvira, porto sul lago Tanganika. Ormai Kigali controlla, tramite i suoi alleati, tutto il lago Kivu e si sta posizionando al vertice del più grande bacino che giunge fino alla Tanzania e allo Zambia.
Qual è la vera intenzione dei ruandesi e dei loro alleati? Per ora si sono fermati dopo l’incontro tra i due presidenti mediato dal Qatar: la comunità internazionale rimane un po’ distratta ma ha comunque dato un altolà (sanzionando anche il Ruanda). C’è chi vede nell’attuale offensiva una riedizione di quelle del 1996-7 e del 2012, sempre sostenute da Kigali: la prima giunse fino a Kinshasa. La seconda si limitò alle due città ma permise ai ruandesi di installarsi in maniera permanente nelle ricche zone delle terre rare di cui è divenuta esportatrice pur non possedendone nel proprio territorio.
L’accusa dei congolesi è che Kigali sfrutta risorse altrui. L’Unione europea ha condannato l’offensiva ma è delegittimata dall’aver siglato in passato con il Ruanda un accordo sulle terre rare avallando tale sfruttamento illegale. Irritata, Kigali ha fatto salire la tensione rompendo le relazioni con il Belgio. Gli americani potrebbero arbitrare. Altri però ritengono che questa volta il Ruanda si limiterà ad annettere de facto i ricchi territori delle provincie orientali.
In questo modo anche nell’Africa dei Grandi Laghi ci sarà una violazione dei confini davanti alla quale la comunità internazionale chiuderà gli occhi.
L’incognita Trump
Joe Biden aveva sostenuto il governo di Kinshasa e il presidente Felix Tchisekedi ma non è detto che, malgrado le simpatie pentecostali americane di quest’ultimo, l’amministrazione Trump farà lo stesso.
Per contrastare l’influenza cinese il presidente Usa potrebbe accontentarsi dell’attuale situazione: un leader solido come Kagame gli assicura stabilità in un’area che ha vissuto sin troppi sconvolgimenti. Sarebbe anche l’occasione per assestare un’umiliazione all’Onu che nel Congo orientale ha la sua più grande operazione di peacekeeping, universalmente ritenuta un fallimento totale ma allo stesso tempo considerata insostituibile.
Secondo molti osservatori di cose congolesi, Kagame assumerebbe così il ruolo del “pompiere piromane”: colui che ha acceso il fuoco e a cui ci si affida per spegnerlo. Ma il leader ruandese è lungimirante: ha saputo ricucire con Parigi e ha fatto del suo paese una nuova “Sparta”: i soldati ruandesi sono richiestissimi in molte zone del continente.
D’altra parte fin dall’epoca di Mobutu l’esercito congolese è corrotto fino al midollo e non combatte. Esisteva fino a vent’anni fa un sentimento nazionale congolese che ora potrebbe essersi dissolto per le troppe delusioni. Il gigante d’Africa rischia la frammentazione. È lo stesso destino che sta subendo il Sudan, anch’esso molto grande e ricco di risorse, o che hanno già subito la Libia (che solo noi europei trattiamo ancora con la finzione dell’unità), la Somalia e che rischiano l’Etiopia, il Mali e il Niger.
Gli stati africani non hanno la forza per opporsi a impulsi centrifughi terribilmente disgreganti che tra l’altro si appoggiano su attori non statuali, come le reti criminali globali e/o economiche illegali, prodotte o favorite dalla globalizzazione. È facile oggi per una milizia armata impossessarsi di un territorio e radicarvisi sfruttando le risorse locali, magari mettendosi in rete con i poteri economici globali. In altre parole, è passata l’epoca delle rivoluzioni e siamo entrati in quella delle rivolte predatorie e dei fenomeni da sfruttamento, come ben descrive Vincent Bevins in Se noi bruciamo. Dieci anni di rivolte senza rivoluzione edito da Einaudi.
Dal 2010 al 2020 ci sono stati molteplici tentativi di ribellioni (le primavere arabe ad esempio) fallite perché la globalizzazione ha polverizzato il potere più che concentrarlo. Anche il jihadismo rivoluzionario, abbandonando le grandi ambizioni iniziali (sia di tipo al Qaeda che Isis) si è adattato in attesa di tempi migliori. È ciò che si vede nel Sahel, attorno al lago Ciad (zona Boko Haram), negli stessi grandi laghi e in nord Mozambico. L’unica eccezione (probabilmente non voluta) è la Siria dove un movimento ex jihadista si è improvvisamente trovato catapultato al comando di uno stato intero. Vedremo quale sarà il destino del Congo.
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