Il presidente annuncia tariffe del 100 per cento contro le pellicole realizzate all’estero. Una decisione che ignora le coproduzioni e le esternalizzazioni. Mandando il settore in tilt
«L’industria cinematografica in America sta morendo di una morte molto rapida» e per evitarla servono dazi al 100 per cento su tutti i film stranieri che arrivano in America, ha scritto Donald Trump sul social Truth, portando la polemica del giorno nel territorio fin qui inesplorato del protezionismo cinematografico. La presa in giro del papato via intelligenza artificiale e l’espressione di qualche dubbio sul rispetto della Costituzione sono venute rapidamente a noia, e il presidente si è lanciato su un argomento che finora aveva risparmiato.
«Altri paesi stanno offrendo qualunque tipo di incentivo per portare i nostri registi e produttori fuori dagli Stati Uniti. Hollywood e molte altre aree negli Usa sono devastate. Si tratta di una manovra coordinata fra nazioni straniere e perciò di una minaccia alla sicurezza nazionale.
È, oltre a tutto il resto, un messaggio e propaganda. Dunque autorizzo il dipartimento del Commercio e il rappresentante commerciale del paese a iniziare immediatamente il processo per istituire dazi del 100 per cento sui tutti i film che arrivano nel nostro paese e sono prodotti all’estero. Vogliamo film prodotti in America, ancora!», ha scritto il tycoon.
Nella manovra del presidente, che per la celebrazione di Star Wars ha fatto circolare sui social della Casa Bianca una sua raffigurazione artificiale nei panni di Luke Skywalker – ma con spada laser rossa, colore dei cattivi – c’è evidentemente qualcosa di simbolico e demagogico: l’idea di difendere l’industria che definisce l’immagine dell’America nel mondo dalle aggressioni commerciali delle potenze nemiche è gradita a chi interpreta il mondo in chiave nazionalista.
Come Clint Eastwood
Inoltre, si può anche immaginare un collegamento con l’altra iniziativa che il presidente ha lanciato in contemporanea a questa, cioè riaprire il carcere di Alcatraz, luogo centrale nel panorama hollywoodiano, anche se solitamente gli eroi sono quelli che evadono dal carcere-isola nella baia di San Francisco, come nel leggendario film con Clint Eastwood del 1979, mentre nell’immagine trumpiana la fuga non è prevista.
Ad abitare la «nuova e allargata Alcatraz» che Trump ha in mente saranno «i criminali viziosi, violenti e recidivi, la feccia della società», quelli che «non contribuiranno mai a nulla se non alla miseria e alla sofferenza», ha scritto il presidente che ci ha abituato a procedere per associazione di idee, dunque non è impossibile (anzi, è probabile) che all’apparire della trovata su Alcatraz gli sia sovvenuto che anche l’industria cinematografica ha bisogno di una riforma.
Guerra di servizi
Connessioni immaginifiche a parte, i dazi su Hollywood sono una questione molto seria, perché per la prima volta dal “Liberation Day” del 2 aprile scorso la Casa Bianca parla di tariffe sui servizi, non solo sui prodotti, faccenda che cambierebbe lo scenario già fosco della guerra commerciale. Gli Stati Uniti sono un enorme esportatore netto di servizi e una escalation commerciale in quel settore sarebbe pericolosa: «Saremmo estremamente vulnerabili a qualunque contromisura sui servizi», ha scritto l’economista Justin Wolfers, senior fellow del Peterson Institute for International Economics. “We’re on it”, ha scritto su X il segretario del Commercio, Howard Lutnick, prendendo in mano un’iniziativa in cui, come al solito, i dettaglio sono vaghi e incomprensibili.
Dalle dichiarazioni di Trump non si capisce se i prodotti cinematografici a trazione americana ma girati in parte all’estero saranno colpiti dai dazi, né come si comporterà con le postproduzioni esternalizzate. E ancora: i film già girati saranno retroattivamente tassati per le quote estere? Saranno puniti solo prodotti che godono di incentivi pubblici stranieri oppure tutti? Trump parla solo di “movie”, ma intende anche le serie?
Tutte queste (e molte altre) domande non hanno al momento risposta, ma certamente il presidente sta violando un patto stretto con il comparto industriale: come big tech, anche Hollywood sarebbe stata risparmiata dall’accetta dei dazi, in considerazione del fatto che il settore porta ingenti profitti dall’estero, mentre i contenuti stranieri costituiscono soltanto una piccola fetta dei ricavi negli Stati Uniti.
Attacco in Groenlandia
I rappresentanti dell’industria per il momento rimangono in attesa di ulteriori dettagli sull’iniziativa, ma l’ipotesi che si fa largo fra gli osservatori è che Trump stia reagendo, in maniera scomposta ed esagerata, ai suggerimenti che gli arrivano dall’attore Jon Voight, che Trump ha nominato suo “ambasciatore speciale” a Hoollywood.
Voight sta raccogliendo le idee dei vari player dell’industria per rilanciare una produzione domestica che, secondo un report dell’associazione FilmLA, è calata del 22 per cento dall’inizio dell’anno. «Il presidente sembra avere interpretato il suo consiglio nel modo punitivo che preferisce, con i dazi come bastone invece che gli incentivi come carota», ha scritto l’Hollywood Reporter, ricostruendo la genesi della decisione.
E mentre si occupa di cinematografia, il presidente è ritornato a proiettare un film apocalittico che da qualche tempo mancava sugli schermi della Casa Bianca, quello della possibile annessione manu militari della Groenlandia. «Non lo escludo», ha ribadito in una intervista alla Nbc domenica sera. «Non dico che lo farò, ma non escludo nulla», ha spiegato, ribadendo che «abbiamo fortemente bisogno della Groenlandia».
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